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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
23/07/2021
Marcella Detroit
Le interviste di Loudd
In questo particolare periodo che il mondo sta vivendo, Marcella è riuscita a concentrarsi su ciò che più ama: comporre canzoni, e si è immersa in svariati progetti che raggiungeranno il culmine nel nuovo album, in uscita a Settembre. Abbiamo avuto l’occasione di parlarne con lei in un’intervista che abbraccia tutti i momenti salienti di una formidabile carriera.

Affascinanti. La storia e il personaggio dietro a quest’intervista sono davvero speciali. Un percorso musicale sorprendente che, fin dai precoci inizi l’ha collegata a un numero incredibile di artisti, da Bob Seger e Leon Russell a Eric Clapton, passando da Bob Dylan a George Harrison, senza dimenticare Alice Cooper, Robin Gibb ed Elton John. Marcella Detroit, conosciuta anche come Marcy Levy, ha sempre messo il cuore, l’amore e la passione per costruirsi una carriera formidabile, ricca di colpi di scena, in cui è brillantemente al top pure come solista e con il fiore all’occhiello della recente acclamata reunion con la nemica-amica Siobhan Fahey per il progetto Shakespears Sister, duo synth pop di grande fama nei primi anni novanta.

Partiamo proprio dalle Shakespears Sister, questo nome mi ha sempre incuriosito forse perché, da fan degli Smiths, mi riecheggiava ogni volta che lo sentivo pronunciare. È riconducibile al gruppo di Morrissey e Marr, vero?

Esatto, giunge da una canzone degli Smiths che Siobham adorava, è stata sua l’idea di chiamare la band Shakespears Sister, era una grande fan del gruppo. L’ho conosciuta dopo che avesse deciso il nome. So che ha percorso vari passi per arrivare a concepirlo.

Negli anni novanta avete raggiunto una fama incredibile, poi lo scioglimento e la sorpresa della reunion. Quali sono state le tappe fondamentali della vostra collaborazione artistica? Ve ne saranno ancora? Non trovi che ci sia una connessione straordinaria tra il ritornello indimenticabile di “Stay”, la magnificenza di “You’re History” e l’intrigante melodia un po’ western di “All the Queen’s Horses”?

Sì, abbiamo davvero fatto bene nei primi anni Novanta, specialmente con il secondo album, Hormonally Yours. La nostra più grande hit, “Stay”, nella quale le mie tracce vocali caratterizzavano tutta l’atmosfera del brano, era su quel disco. Si piazzò al numero uno per otto settimane in Gran Bretagna e rimane tuttora la maggior durata in vetta alle classifiche per una band femminile in UK. Quando registrammo appunto Hormonally Yours mi fu chiesto dal management e dalla compagnia discografica di diventare un membro della band al 50%, poiché la mia impronta artistica/musicale era diventata più integrale e integrata al suono delle Shakespears Sister. Abbiamo vinto un Brit Award, un award di gran valore per il video di “Stay”, diretto da Sophie Muller, autrice di parecchi dei nostri clip. Mio marito, Lance Aston, ebbe l’idea per la trama: io avrei cantato per il mio amato in fin di vita e Siobhan avrebbe interpretato l’Angelo della Morte, per portarlo via nel momento fatale. Alla fine, però, il mio amore lo salverà!

Sophie, che vanta collaborazioni anche con Sade, Gwen Stefani, Blur e molti altri ancora, ha anche girato il video del nostro ritorno, “All The Queen’s Horses”, la prima canzone scritta per la reunion. Riguardo alla nostra riunione, all’inizio si pensava solo di organizzare un tour, ma mio marito Lance suggerì di provare a comporre alcuni brani insieme. L’idea piacque a tutti e andammo nel deserto, solo io e Siobhan, a cercare ispirazione. Riuscimmo nell’intento e la location portò a un sound più tendente al genere Americana, grazie appunto all’ambientazione. Sinceramente non so se vi saranno sviluppi futuri del progetto, anche se l’ultima persona che ho visto prima del lockdown dello scorso anno è stata proprio lei. Cenammo insieme, e la aiutai a preparare un sistema di registrazione per il suo studio di incisione. Siamo rimaste in contatto tramite alcune videochiamate, poi è tornata in Europa e non abbiamo avuto occasione di rivederci, e per me è iniziata una nuova fase dal punto visto compositivo, molto personale, che è sfociata nelle novità di questi ultimi giorni.

 

 

Che differenza passa tra l’epoca del tuo esordio, nei primi anni settanta, e quella attuale? Sembra siano cambiate davvero molte cose. Come vedi la musica oggi e in quali artisti più ti riconosci?

Tutto era completamente differente. Ora chiunque può essere un artista, realizzare qualsiasi cosa ed essere pure il proprio produttore e distributore. Per certi versi non è male, la situazione, è un mercato più aperto; comunque si ha sempre l’urgenza di far conoscere al di fuori del personale “recinto” la musica composta e farla ascoltare alla gente. E così riappaiono le case discografiche, in quanto è troppo costoso altrimenti promuovere il prodotto, ci vuole davvero un lavoro durissimo per riuscire a essere indipendenti. Io lo so bene, ho realizzato parecchi album da sola.

Amo tuttora il pop e adoro pure alcune perle proposte dalla musica elettronica. In generale mi piacciono le canzoni costruite bene. Devo ammettere che sento la mancanza di ottime band rock ‘n’ roll. I miei preferiti sono i Black Pumas, Brittany Howard degli Alabama Shakes e band come i Black Keys. Sono intrigata poi da Dua Lipa, che propone pezzi molto “intelligenti” e apprezzo Doja Cat. La prima volta che ho ascoltato il suo brano “Say So”, ho capito subito che sarebbe stato un grosso successo. La tecnologia ha cambiato parecchio il panorama musicale, vorrei poter ascoltare maggiormente rock and roll. A riguardo sono felice di conoscere un’autrice fresca, che si destreggia tra metal e rock, sto parlando di Poppy.

 

Proseguendo nel discorso del periodo iniziale, Bob Seger e Leon Russell sono stati fondamentali come esperienza, cosa ti ha portato da loro a Clapton?

Lavorando con Bob Seger ho incontrato Jamie Oldaker e Dick Sims che stavano a Tulsa, Oklahoma. Io sono di Detroit (da cui la scelta del “cognome” d’arte, ndr), ma a quell’epoca Tulsa rappresentava la Mecca della musica e Leon Russell possedeva lì la Shelter Records. Quando, nove mesi dopo, la band di Seger si sciolse, Jamie e Dick mi invitarono a Tulsa con l’idea di formare un nuovo gruppo. L’opportunità di poter incontrare Leon, unita al piacere di stare con i miei compagni di avventura mi spinse ad accettare. Adoravo tutte le incarnazioni di Russell, dai Mad Dogs & Englishmen con Joe Cocker ai suoi lavori solisti, davvero un grandissimo musicista e compositore. Lui e J.J. Cale vennero a vederci suonare, così come molti altri, fra cui Carl Radle, il bassista di Clapton nell’era Derek and the Dominos, il quale si entusiasmò a tal punto che, quando il chitarrista inglese lo chiamò per annunciargli l’intenzione di tornare sul palcoscenico dopo un lungo periodo di oblio, lui gli suggerì di venire a vederci al Cain’s Ballroom. Eric non solo arrivò, si esibì pure insieme a noi e comunicò di volerci tutti nella band. Io avevo appena dato l’ok per andare in tour con Leon, era uno dei miei sogni e in più ero innamorata di lui, così declinai l’invito. Fu solo questione di tempo. Al termine dei concerti programmati, nove mesi dopo, verso la fine del 1974, volai in Giamaica, dove Clapton stava registrando There’s One in Every Crowd. Incisi le parti vocali in alcuni brani e mi venne chiesto di far parte del gruppo. Naturalmente accettai, potevo forse perdermi l’opportunità di girare il mondo con i miei amici e cantare e suonare con il più grande chitarrista esistente nell’universo?

 

In occasione delle sessions per la registrazione di No Reason To Cry, 1976, Clapton si circonda di star. Ronnie Wood, The Band e Bob Dylan compariranno anche nel disco, ma vi sono visite pure di Van Morrison, George Harrison e Jeff Beck. Come hai vissuto questi incontri straordinari?

Eh sì, c’erano davvero tante persone in quei giorni, era un piacere suonare e improvvisare con loro. Ecco uno dei miei più bei ricordi: ci trovavamo a Malibu, nel mitico studio/abitazione della Band chiamato Shangri-La, e stavo suonando il piano in sala di registrazione. In realtà mi accingevo a comporre una delle mie nuove canzoni e, improvvisamente, sento aprirsi la porta e una voce gridare, “Continua così, sarai veramente bravissima un giorno”. Quando mi girai e vidi George Harrison in carne e ossa non riuscivo a crederci, era sempre stato il mio Beatle favorito, così ascoltare quella frase detta da lui fu meraviglioso. Rimembro poi una notte in cui Bob Dylan si arrampicò in casa da una finestra scappando da una ragazza che lo inseguiva per tutto lo studio, da morire dal ridere! Anche Ronnie Wood e Jeff Beck erano nei paraggi spesso, giocavano a biliardo con tutti gli altri e si univano a noi per lunghe “jam sessions”. Quanto divertimento! Non posso dimenticare quella dolcissima persona di Richard Manuel, così talentuoso…

 

Proprio in questi mesi Bob Dylan ha compiuto ottant'anni. Che gli scriveresti in una lettera di auguri?

Pazzesco, ottant'anni! Ho una storia da raccontare riguardo a Bob. Mentre ero con Eric in tour, nel ’78, ci esibimmo in alcuni festival insieme a lui. Alcuni anni dopo, quando vivevo a Los Angeles e lavoravo molto in studio per altri artisti ricevetti una chiamata da Dylan. “Hey, sono Bob…”, “Bob chi?”, “Dylan”. Quasi caddi dalla sedia per lo stupore, mi voleva alle sue prove e mi chiese di portar una chitarra. Quando arrivai da lui mi presentò la sua band e le due magnifiche vocalist, Clydie King e Venetta Fields. Mi domandò di cantare “Lay Down Sally” usando appunto la chitarra che avevo appresso, fu veramente un momento di grande divertimento. Rimase talmente impresso che passarono pochi giorni e mi telefonò invitandomi a far parte del gruppo che sarebbe partito presto per una serie di concerti. Stavo lavorando sodo per il mio disco solista e, anche se non ci posso ancora credere, gli dissi di no. In quel momento era giusto mi concentrassi sulle mie attività. Rimane un esempio unico, uno dei pochi grandi che ancora abbiamo.

 

The Core è una delle canzoni più amate dagli hardcore fans di Eric e “Lay Down Sally” una delle più famose. Puoi raccontarci alcuni retroscena visto che ne sei l’autrice insieme a Slowhand? Come venne coinvolto George Terry nella composizione della seconda?

Eravamo agli Olympic Studios, si registrava quello che sarebbe diventato lo storico Slowhand. Eric cominciò a suonare il riff per “The Core” e la band si unì a lui. Mi chiese di portare il pezzo che stava nascendo in hotel e di scriverci sopra. Mi erano venute in mente già alcune idee per il testo mentre la stavamo eseguendo. Il titolo sarebbe stato “The Core” e riguardava il sentirsi tanto vivi, pieni di emozioni, volevo rappresentare l’intera gamma di tali sensazioni. Poi aggiunsi un fatto reale: ogni mezzanotte suonava un allarme antincendio, fastidioso, che ci costringeva a volte a dover uscire quando eravamo ormai in pigiama. Decisi di utilizzare quel momento noioso nella canzone e nel secondo verso scrissi, “Cause every day a fire alarm is deafening the silence all around me”. Questo a voler ancora una volta ricordarmi che esisto e devo godermi la vita nella sua totalità di azioni!!

Riguardo a “Lay Down Sally”, stavolta Eric mi disse che voleva scrivere un pezzo con quel titolo e così presi la chitarra e cominciai a suonare un ritmo alla Bo Diddley ed è così che iniziò la stesura del brano. Ci lavorammo tutto il giorno io, Eric e George Terry, assecondati dal resto della band. Passarono ore, noi tre eravamo a buon punto nella composizione, ma mancava il groove giusto che Clapton trovò arrangiandola nello stile di J.J. Cale. Oramai il tastierista, Dick Sims, se ne era andato, stufo per la lunghezza delle prove, così mi piazzai io al piano elettrico e il produttore Glyn Johns fece partire la registrazione, felice per la piega che aveva preso la canzone. Terminai alcune parti quella stessa sera su consiglio di Eric e il giorno successivo con alcune sovraincisioni concludemmo il tutto. Il resto è storia: alcune settimane dopo “Lay Down Sally” volava alta in classifica!

 

Nel 1985, dopo sette anni dall’ultima collaborazione, torni nella band di Clapton, porti in dote una bellissima canzone, “Tangled In Love”, che diventerà un classico nella scaletta live di quel periodo e partecipi al Live Aid. Ricordi meravigliosi, ancora emozionanti, presumo.

Oh, grazie! Ho scritto “Tangled In Love” insieme a Richard Feldman, autore, fra le altre, anche di “Promises”, e la facemmo ascoltare a Jamie Oldaker, che ancora lavorava per Eric. Il brano piacque molto a Clapton e al produttore Phil Collins. Mi invitarono a Montserrat per inciderlo nell’album (Behind The Sun), mi chiesero di rimanere come vocalist e, anzi, di portare anche un’amica che sapesse cantare. Arrivai da loro con Shaun Murphy, una delle migliori interpreti che conoscessi, presente in numerosi dischi di successo. In pochi giorni registrammo le nostre parti vocali in parecchie altre tracce e venimmo “assunte” per tutto il tour che durò due anni.

Ho ancora i brividi a pensare al Live Aid!! La mia canzone preferita della serata fu “White Room”. Ho sempre amato quel magico momento in cui Eric la suonava, è così bella!

 

Il destino con il tuo storico boss prevede, al momento, un ultimo incrocio. Hyde Park, Luglio 2018.  La voglia di saperne di più è tanta riguardo a questa tua inaspettata, ma tanto sperata presenza sul palco con Eric…

Che sincronia! Tempo prima avevo programmato di essere a Londra per fare alcuni dei miei show a Luglio tra il 9 e il 20. Notai che Eric avrebbe suonato a Hyde Park l’8. Così contattai il suo amico di lunga data, nonché assistente personale, per dirgli che avrei avuto piacere di salire sul palco per cantare un paio di brani. Alcune settimane dopo ricevetti risposta: Clapton era felicissimo dell’idea. Le parole non possono esprimere quanto fossi eccitata. È stato meraviglioso rivederlo per la prima volta dal 1985.  Generoso e gentile, poi nel presentarmi al pubblico, al momento della mia entrata sul palco come “Marcy Levy, la signora che ha scritto questa canzone”, prima di partire in una sognante versione di “Lay Down Sally”. Quanto divertimento e che delizia poi avere in scaletta “The Core”, non riesco a descrivere quante sensazioni abbia provato dentro di me, si tratta di una cosa molto catartica, il momento in cui si chiude un cerchio, unico e irripetibile.

 

Foto di Nick Hynan

 

Le tue partnership con Alice Cooper e Robin Gibb sembrano interessanti, mi piacerebbe avere qualche dettaglio in più…

La collaborazione con Alice Cooper avvenne tramite il produttore David Foster, con il quale feci molte “sessions” quando andai a vivere a Los Angeles a fine anni settanta. Avrei anche dovuto pubblicare un album diretto da lui per la RSO Records, ma purtroppo non se ne fece niente. Mi ha insegnato molto, ho imparato anche grazie a lui cosa significhi essere una cantante e backing vocalist da studio. Fu lui a chiamarmi per registrare con Alice. Mi sembrò una strana, ma realmente intrigante canzone, era il mio sogno lavorare con lui, che viene da Detroit come me e ho visto molte volte live quando ero una teenager. Un'icona!

Incidere insieme al compianto Robin Gibb è avvenuto grazie al celebre Robert Stigwood e qui si ritorna al disco di cui ho parlato prima che non venne fatto uscire. Robin e Robert continuarono a promuovermi nonostante tutto e mi misi al lavoro con il primo per scrivere la title track per il film Time Square (1980). Mi portarono in Inghilterra per realizzare il video e feci pure un duetto da brividi con Jimmy Ruffin, musicista di un talento incredibile. Fu un vero onore.

 

Ain’t Nothing Like the Real Thingcon Elton John nel suo Duets (1993) è una perla da riscoprire in cui, oltre alla tua incredibile voce dimostri l’abilità di polistrumentista suonando chitarra, armonica e tastiere. Come sono nati i presupposti e come si è concretizzato questo duetto?

Un altro grande privilegio vissuto in vita mia è stato lavorare con lui, di cui sono sempre stata una grandissima fan. Dopo aver lasciato il progetto Shakespears Sister stavo componendo per il mio album solista Jewel e Chris Thomas, famoso per aver prodotto i Pretenders, gli INXS e i Pulp, era il mio riferimento per ciò che volevo creare. Mentre eravamo in sala di registrazione ricevette una chiamata da Elton che chiedeva un suo intervento per il disco Duets. Chris non accettò, visto l’impegno preso con me, ma John non mollò l’osso, lanciando anzi l’idea di fare un duetto. Mi chiese di selezionare una canzone e inizialmente scelsi “The Border Song”, ma non era di suo piacimento, così pensai al classico Motown “Ain’t Nothing Like the Real Thing” che sarebbe stato perfetto anche per il mio lavoro. Venne in studio e lo cantò con me. Io aggiunsi un solo di armonica e, sì, suono molti strumenti e lo feci pure in quella situazione in cui inserii anche alcune programmazioni elettroniche. Che storia condividere tutto ciò con Elton John! Il pezzo finì anche sulla mia opera, Jewel, e lo promuovemmo pure, fra i tanti show, a Top of the Pops.

 

Ora è il momento di concentrarci sulla tua brillante carriera solista. Sono sette gli album in studio, se non sbaglio, dall’esordio Marcella fino a Grey Matterz. Qual è il tuo preferito e perché?

Come ben sai ho sempre desiderato essere un’artista a tutto tondo, indipendente, con una chiara identificazione e impronta che mi caratterizzasse. Ho imparato tantissimo intrecciando il mio percorso con alcuni dei migliori musicisti presenti nel mondo. Sì, si comincia con Marcella, che esce per Epic Records, prodotto insieme al mio amico Richard Feldman con la supervisione del mitico John Boylan, grande hitmaker per eccellenze dello spettacolo come Linda Ronstadt, Quarterflash, membri degli Eagles, Charlie Daniels e molti altri. In seguito i miei dischi Jewel, Feeler, Dancing Madly Sideways, The Upside of Being Down (ritorno alle mie radici blues), The Vehicle, Gray Matterz e ora la mia nuova opera in arrivo, Gold, che verrà pubblicata a Settembre. Mi risulta davvero difficile dire quale sia il mio preferito, ma amo tantissimo Feeler, è così particolare e suona talmente rock ‘n’roll che tiene botta ancora al giorno d’oggi. E sono veramente così fiera dell’album che sta per uscire, alcuni brani sono incredibilmente forti e moderni!

 

Le tue doti compositive sono notevoli, dovendo citare due canzoni non posso fare a meno di menzionare “I Believe” e “England Calling”. Che ne pensi della mia scelta?

Grazie mille! Amo anch’io tremendamente queste canzoni. Scrissi “England Calling” perché volevo pagare omaggio alla mia seconda casa, l’Inghilterra. Mi sono accadute così tante cose stupende grazie a persone con cui ho collaborato nel Regno Unito. L’ho scritta insieme a mio marito, Lance, e lui canta persino nel pezzo. Sono molto legata a “I Believe”, e orgogliosa del suo successo e del significato ancora attuale ai giorni nostri.

 

La voce di Marcella Detroit è inconfondibile, un vero trademark presente nei contesti più disparati. Figuri nei cori di “(I’ve Had) The Time of My Life”, classico dei classici da “Dirty Dancing”, e hai partecipato con successo nel 2010 al programma britannico “PopStar to OperaStar” di cui ricordo una versione di “Un bel dì, vedremo” (Puccini, Madama Butterfly) da brividi. Dove trovi tutta questa freschezza e duttilità? Hai quindi cantato anche in italiano. Che ci racconti riguardo al nostro paese? Che ne pensi della nostra musica, dei nostri musicisti?

Devo dire che “Un Bel Dì” è una delle più belle canzoni che abbia mai avuto onore di cantare. E adoro farlo in italiano!! So parlare spagnolo, l’ho studiato per sette anni a scuola, così posso comprendere anche la vostra lingua. Quel brano è stato una sfida. Tutte le volte che lo interpretavo dicevo a me stessa: immagina di cominciare un pezzo con le note più alte possibili e vai avanti da lì! Ne è così valsa la pena, ho imparato tantissimo da quella esperienza, soprattutto riguardo a tenacia e impegno. Adoro l’Italia, siamo stati fortunati per aver visitato Roma, facendo poi una crociera che partiva da Civitavecchia, nel 2012. Sono pure innamorata del cibo, della gente e spero di tornarci presto. E la prossima volta che sarò nel Belpaese mi piacerebbe aver anche l’opportunità di lavorare con i musicisti del luogo.

 

La penultima domanda non può che vertere sui tuoi progetti futuri e su quanto l’incertezza di questo terribile periodo, a causa della pandemia, abbia eventualmente influito sulla tua vita personale e artistica.

Diciamo che non sono rimasta con le mani in mano. Ho scritto più di settanta canzoni per i miei editori, cercando di concentrarmi anche su tematiche per film e tv. Alla fine, però, in realtà, il risultato è che ho composto brani principalmente per me stessa e quindici di questi faranno parte dell’album in arrivo. Ho da poco realizzato un nuovo singolo, “Vicious Bitch”, che si rivolge a Madre Natura, a quanto possa essere meravigliosa, poi terribile e farti attraversare una pandemia! Ho scelto di pubblicarlo il giorno del mio compleanno, il 21 giugno, e poco dopo è entrato in una classifica dance ufficiale. Effettivamente la mia nuova musica è più orientata al genere dance/electronic e sono stati fatti parecchi remix da grandi dj. La prossima uscita avverrà in Agosto e, parlando appunto di remix, sarà il team 7th Heaven a occuparsene. Il pezzo si chiamerà “Alien 2 Me”. Non credo, a questo punto del mercato discografico, che propenderò per una distribuzione fisica dei miei prodotti. “Vicious Bitch” è disponibile su iTunes e tutte le piattaforme digitali e anche il resto verrà proposto allo stesso modo.

 

Siamo arrivati alla fine, lasciami dire che la tua vitalità ed entusiasmo sono contagiosi. Sei un’Artista incredibile che continua a regalare sorprese e rinnovare la magia della musica, ne abbiamo davvero bisogno.

Grazie! Io sono qui, continuo a comporre e produrre musica, sarò impegnata tutta l’estate tra pubblicazioni di singoli e album. L’unico modo per affrontare e convivere con questi tempi difficili doveva essere quello di mantenersi creativi. Ho cercato di lasciare fuori dalla porta tutte le vicende terribili e mi sono buttata sul lavoro. Sono orgogliosa di ciò che ho creato ed eccitata per ciò che mi offrirà il futuro, qualsiasi cosa sia.

Un abbraccio a tutti voi!

 

 Foto di Dawn Bowery

 

 

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