È proprio vero che le mode, i trend sono ciclici, soprattutto nella musica ma che, nonostante tutto, determinano le sorti delle band in misura molto maggiore di quanto sarebbe lecito attendersi. Prendete i Circa Waves, ad esempio. Fossero usciti anche solo ad inizio Duemila, avrebbero fatto sfracelli e avrebbero facilmente preso il posto di gente come Strokes e Arctic Monkeys. Purtroppo per loro, le circostanze storiche contano e il 2015, in termini di gusti, parlava una lingua già completamente diversa: abbiamo amato “Young Chasers”, abbiamo goduto delle ottime recensioni che si è conquistato un po’ dovunque ma per dare il via ad una nuova ondata di Indie Rock chitarristico era troppo tardi. Lo dico solo per inquadrare la questione perché poi a me importa fino ad un certo punto. E credo anche al loro pubblico. “What’s It Like Over There”, il loro terzo album, esce in questi giorni e li riconferma più in forma che mai, totalmente incuranti delle mode, con l’unico obiettivo di scrivere belle canzoni e di divertirsi sul palco.
A febbraio sono passati da noi in compagnia dei concittadini Wombats (altra grande eccellenza di questo sound dimenticato) e degli esordienti Bloxx, dove hanno messo a ferro e fuoco un Fabrique gremito di fan giovanissimi ed entusiasti.
Qualche ora prima del concerto, ho incontrato Kieran Shudall (voce e chitarra) e Joe Falconer (chitarra), colonne portanti della band di Liverpool: mi hanno ospitato per qualche minuto nel loro backstage e, rilassati e alla mano, mi hanno raccontato alcune cose del disco e del tour che stanno portando avanti.
Per prima cosa parlerei del vostro disco: lo sto ascoltando ormai da diverse settimane e devo dire che mi piace molto. Lo trovo molto più vario degli altri due, contiene molte più influenze, alcune soluzioni che non avevate mai provato in precedenza… direi che nel complesso potrebbe essere considerato il vostro lavoro migliore.
Kieran Shudall: In effetti non è un disco facile da catalogare. Abbiamo influenze disparate che vanno dagli Arctic Monkeys, agli Arcade Fire, a John Lennon, fino a Gorillaz.
Joe Falconer: Bene o male i nostri due dischi precedenti avevano un focus molto più ridotto, dopo tutto siamo una garage band, facciamo quel genere lì, mettiamo dentro 13 pezzi a disco e le sonorità alla fine sono quelle. Questa volta abbiamo sentito il desiderio di sfidare noi stessi, di fare qualche cosa di nuovo, perché alla fine ripetere sempre le stesse cose non è soddisfacente, dal punto di vista artistico.
Da questo punto di vista, i primi due pezzi sono sorprendenti: “Sorry I’m Yours” è un mid tempo molto robusto, con un ritornello epico e potente, “Times Won’t Change Me” è una sorta di blues con tanto di pianoforte come strumento principale…
K: Per questo disco abbiamo voluto delle batterie molto potenti, che potessero guidare le varie tracce, esattamente come puoi sentire su “Times Won’t Change Me” e su questa canzone il piano va dietro alla batteria. Stessa cosa per “Sorry I’m Yours”, con questo drumming molto tribale. Praticamente, invece di concentrarci sulle chitarre come facevamo prima, impiegando vario tempo per settare gli overdrive, le distorsioni… l’abbiamo fatto anche adesso, per carità, ma questa volta abbiamo voluto che fossero le batterie a determinare il tono del disco.
Un altro brano che mi ha colpito molto è “Movies”, il primo singolo che avete fatto uscire per il disco. Penso che contenga il miglior ritornello che abbiate mai scritto…
J: Il miglior ritornello di tutti i tempi (risate NDA)! Ad ogni modo grazie, ci fa piacere!
E penso che questo sia un po’ l’altro lato del disco, molto più catchy, leggero, molto teenage oriented…
K: “Movies” è la prima che abbiamo scritto, vero?
J: Mi pare di sì
K: Vedi, è strano perché quando l’abbiamo scritta pensavamo che bene o male il disco si sarebbe mosso su queste coordinate e invece, più andavamo avanti a scrivere, più vedevamo che usciva fuori qualcosa di diverso.
J: Alla fine questa è rimasta la “Party Song” del disco!
K: Sì, penso che ogni nostro disco contenga in qualche modo dei pezzi del genere, che suonano più “Indie”, diciamo. Questa in particolare ha un feeling molto Motown, ci sento dentro anche gli Spring River, gli anni ’70, per le melodie, le armonie vocali… rispecchia un po’ la varietà di influenze di cui ti dicevo prima.
E per quanto riguarda i testi? Perché leggendoli mi sembra che si focalizzino su una storia d’amore, fotografandone le varie fasi…
J: È una cosa di cui ci siamo accorti dopo, perché quando sei nel mezzo della lavorazione non ci pensi, poi qualcuno magari ti fa notare: “Hey, parla della tua ragazza!” e allora ti rendi conto di aver scritto una sorta di concept album.
K: Quando ci siamo messi a compilare la tracklist ci siamo accorti che c’erano diverse canzoni che riflettevano vari momenti all’interno di una relazione; ad esempio “Sorry I’m Yours”, che esprime la paura di non essere all’altezza dell’altra persona, oppure “Movies”, che racconta la fase da luna di miele, quando ancora è tutto meraviglioso, oppure “Passport”, che parla di rottura, “Motorcade” è sull’amare qualcuno che ad un certo punto muore… diciamo che sono tutte come delle tessere di un puzzle che vanno poi a formare un quadro preciso. Alcune sono state ispirate dalla nostra esperienza, altre ce le siamo inventate, altre ancora le abbiamo raccolte lo scorso anno, girando per l’America, incontrando diverse persone abbiamo cercato di assumere la loro prospettiva.
Ma dei testi vi occupate entrambi?
K: Non gli lascerei mai scrivere un testo (risate NDA)!
J: Anche perché non ne sarei in grado (risate NDA)!
Ho notato che dal vivo suonate solo i due singoli del disco, per ora. Come mai avete scelto di non anticipare nessun brano inedito?
J: Perché non li abbiamo ancora imparati (risate NDA)! Abbiamo registrato in studio ma non abbiamo ancora avuto abbastanza tempo per trovarci tra noi e suonare i pezzi in modo tale da riuscire a portarli sul palco. Alcuni poi non sono immediati: “Times Won’t Change Me”, per dire, ha il piano e noi dal vivo il piano non l’abbiamo mai usato…
K: La cosa bella di quando sei in studio è che hai un sacco di idee, ti arrivano tantissimi input e allora tendi a mettere dentro tutto, però poi c’è il problema di portare tutto questo sul palco. Al momento non siamo pronti ma dopo questo tour ci fermeremo un po’ e lavoreremo con calma ai nuovi pezzi.
Mi incuriosisce molto la copertina del disco: la trovo molto evocativa e, se associata al titolo, crea un effetto particolare…
K: Volevamo essere ambigui, non veicolare per forza un messaggio preciso, in modo tale che ognuno potesse guardarla e trovarci qualcosa di diverso. Volevamo che ci fossero diverse interpretazioni, che suscitasse molte più domande che risposte. Tu che cosa ci vedi?
Mi sembrano due persone che stanno insieme ma che guardano un punto davanti a loro, non loro stessi. Che so, potrebbe essere ciò che tiene insieme la loro storia, il senso della vita…
K: Interessante, non mi era mai venuto in mente… vedi che funziona (risate NDA)?
Ricordo quando è uscito il vostro disco d’esordio e si parlava tantissimo di voi, eravate visti come una novità interessante, fresca, come un’autentica promessa dell’Indie Rock… adesso, dopo quattro anni, come vi vedete? Dopotutto le cose non vi sono andate male, no? Avete scritto canzoni che in qualche modo hanno lasciato il segno, tipo “Fossils” o “T Shirt Weather”…
J: Se devo essere sincero, mi ricordo appena di quel periodo. È stato tutto molto veloce, faccio fatica a mettere insieme i pezzi. Anche se indubbiamente ricordo di essermi divertito, questo sì!
K: È bello suonare quelle vecchie canzoni davanti a gente che non le conosce e vedere quanto ancora siano potenti, quanto ancora creino un effetto positivo. Sono contento di questi pezzi e mi diverte ancora tanto portarli sul palco. E credo che sia questa la cosa più importante di quando si scrive una canzone: che si sia contenti di suonarla anche molti anni dopo. Credo che succederà la stessa cosa coi nuovi brani: tutti quelli che abbiamo incluso nel disco funzionano alla grande, sono molto semplici, nelle strutture, negli accordi, ma sono anche belli da suonare, hanno una loro longevità e sento che non ce ne stancheremo così facilmente. E per un gruppo come il nostro, che va avanti negli anni, non è un particolare secondario.
J: Ho un amico che suona anche lui in una band e ogni tanto mi racconta che sul palco fanno degli errori, sbagliano qualche cosa. E ci diciamo sempre che quando inizi a sbagliare è perché ti stai annoiando. Per questo credo sia importante sentirsi sempre sfidato, messo alla prova. È l’unico modo per continuare a provare piacere per quello che si fa e riuscire a farlo al meglio.
E cosa potete dirmi di questo tour coi Wombats? Come sta andando?
K: Bene! I fan dei Wombats sono appassionati di musica, hanno fame di novità, lo si capisce guardandoli in faccia mentre suoniamo, che ci apprezzano e che una volta a casa scaricheranno la nostra musica o la compreranno…
J: Meglio se la comprano (risate NDA)! Comunque, è bello, abbiamo parecchi fan in Europa per cui la partecipazione è buona.
K: E coi Wombats ci troviamo bene, sono tutti ragazzi simpatici e alla mano, sono anche bravissimi dal vivo ed è bello perché così li possiamo guardare ogni sera e non ci annoiamo, sono davvero dei grandi performer.
Che poi bene o male fate lo stesso genere, immagino che anche per il pubblico sia bello avere un pacchetto omogeneo, no?
J: Sì, siamo entrambe band con melodie Pop e chitarre aggressive, in effetti viviamo nello stesso mondo.
A proposito di chitarre: si continua a dire che non è un bel periodo per la musica incentrata su questo strumento… voi che ne pensate? Vi sentite fuori moda?
J: Sì (risate NDA)!
K: In realtà prima o poi finirà, le mode sono cicliche, alla fine. Ma credo che finché ci saranno dei gruppi con le chitarre in giro si potrà continuare a dire che sono antiquati, superati, eppure loro continueranno ad esistere. Voglio dire, noi siamo ancora qui, dopo tutto.
J: Credo che un certo tipo di musica per continuare ad esistere abbia bisogno di belle canzoni. Che è quello che abbiamo cercato di fare noi con questo disco. Per cui se avrà successo ci chiameranno “I salvatori del rock” (risate NDA)!