Coi Canova, come del resto con altri nomi della galassia It Pop, è difficile avere mezze misure: o li ami o li odi. Frutto, questo atteggiamento, di uno snobismo eccessivo, che tende a liquidare come superficiali e ininfluenti tutti quegli artisti che hanno semplificato il linguaggio del Rock e della canzone d’autore, mettendolo al servizio del vissuto delle giovani generazioni; dall’altra, un entusiasmo genuino per una forma comunicativa che dopo tanti anni ha saputo essere esclusivamente a beneficio dei teenager o poco altro.
Personalmente, ho sempre sentito il bisogno di essere equilibrato: né coi vecchi tromboni, né coi seguaci dell’hype a tutti i costi. Semplicemente, si ascolta e si giudica, gruppo per gruppo, disco per disco.
I Canova, ad esempio, all’inizio non mi avevano detto nulla. Ci ho messo diverso tempo per vedere quello che nel frattempo avevano visto migliaia di fan: canzoni ben costruite, dritte al punto, con melodie irresistibili, con testi nei quali chi avesse dai sedici ai venticinque anni non poteva non identificarsi, non rivedere il proprio vissuto. Ovviamente con me questo aspetto non fa presa ma, se pur osservato da fuori, il repertorio della band di Legnano alla fine è riuscito a conquistarmi. Alla fine sono cresciuti ascoltando quattro generazioni di gruppi rock, dai Beatles ai Doors, dagli Oasis agli Strokes e prima di esplodere, più o meno improvvisamente, con “Avete ragione tutti”, hanno macinato chilometri e fatto un sacco di gavetta su palchi minori. Quello che hanno ottenuto, quindi, se lo sono ampiamente guadagnato e a vederli in azione dal vivo, è evidente che è gente che sa suonare e ha in mente cosa vuol dire fare un concerto. Poi, che piacciano o meno, è un discorso a parte.
Questo sabato avremo l’ultima occasione di vederli in Nord Italia, visto che suoneranno a Milano, nella ormai classica cornice del Circolo Magnolia. Sarà la conclusione ideale di un tour, quello del secondo disco “Vivi per sempre”, che li ha visti suonare per cinque mesi in giro per l’Italia, collezionando diversi sold out e confermando un’altra volta il proprio status, seppur con un lavoro meno diretto del precedente, meno incentrato sull’immediatezza dei singoli ma altrettanto riuscito (forse un filo inferiore ma sono dettagli). Abbiamo parlato di questo e di altre cose con Matteo Mobrici, cantante e autore dei pezzi.
Partiamo dall’occasione specifica di questa intervista: sabato suonerete al Magnolia, per quello che avete presentato come una sorta di saluto finale… che cosa succederà esattamente?
Quella di Milano la consideriamo la vera chiusura di quest’anno, di questo tour: è il posto da cui veniamo per cui la guardiamo davvero con più affetto. In realtà poi ci sarà un'ultima data, il 15 a Pisa, però vediamo Milano come la chiusura più vicina alle nostre sensazioni, la stiamo vivendo con più entusiasmo. Ovviamente non è che l'altra non la vogliamo fare però sarà proprio l’ultima quindi immagino ci sarà anche un po’ di malinconia, di tristezza. Quella di Milano è la penultima, per cui sarà solo una festa...
E avete annunciato anche la presenza di alcuni ospiti, come Gazzelle e Fulminacci, vostri compagni di etichetta alla Maciste Dischi…
Più che compagni di etichetta (perché comunque la Maciste ha anche tanti altri artisti nel suo roster) sono amici. Sia con Flavio (Gazzelle NDA) che con Filippo (Fulminacci NDA) c’è un rapporto umano che va oltre quello di essere nella stessa scuderia. Quest’anno ci siamo incontrati diverse volte, sia in tour che durante le fasi di promozione, oppure la sera, semplicemente per uscire insieme a bere. Noi poi chiudiamo un secondo disco importante da tanti punti di vista e anche una fase, è un'ultima data che rimanderà a tante cose che succederanno, quindi averli sul palco sarà un modo forte per dare un arrivederci.
In questi giorni avete fatto uscire il video di “Ho capito che non eravamo”, che è in pratica un collage di immagini dei vostri concerti: anche questo è un modo per lanciare la data di sabato e per salutare i fan?
Sì esatto. Le immagini si riferiscono ai concerti di aprile quindi c’era l'Alcatraz a Milano, l'Estragon a Bologna e altre situazioni simili; però è vero, volevamo dare quest’ultimo colpo puntando molto sul concerto perché è lì che questo saluto sarà sentito tanto. Chi ci sarà lo sentirà anche perché poi non ci si vedrà per un po’, non prima che escano le prossime canzoni. Sarà una fase “non di luce”, diciamo così, quindi per chi è proprio appassionato al progetto, si tratterà di un arrivederci importante. Poi sai, una delle cose più belle di cui mi sto accorgendo nel fare questo mestiere è che cresci davvero con le persone che ti seguono. Mi scrivono in tanti e i dischi vanno poi a scandire le vite del pubblico, ci sono i ricordi legati ai concerti... non è una fase che si chiude solo per noi ma anche per il pubblico, che al prossimo tour avrà nuove canzoni, nuove cose da raccontare, da dedicare...
E come lo vedi ora, “Vivi per sempre”, a cinque mesi di distanza dall’uscita e dopo un tutto un tour di supporto? Ti è capitato di guardarlo da una prospettiva diversa? Di scoprirne dei lati prima sconosciuti?
Intanto ti dico che è vero quello che diceva Caparezza (me l’hanno tirato fuori due anni fa in un'intervista) che il secondo disco è quello più difficile. È però anche vero che è stato un disco molto libero e la libertà, soprattutto in questo campo, te la devi guadagnare, la devi sudare e devi anche un po’ rischiare. È uscito in maniera spontanea, senza pressioni di nessun tipo e direi che è stata questa la conquista più grande. Poi sai, io vedo i dischi come dei piccoli tasselli che piano piano vanno a formare un mosaico, per cui spero di potermi guardare indietro tra vent'anni e di vedere che ogni episodio è stato una parte della mia vita. Spero nel futuro di potere fare tanti dischi in modo da poterli giudicare da lontano, adesso sono ancora troppo dentro: è uscito a marzo, lo abbiamo suonato tanto in giro ma io ho già in testa le nuove canzoni...
Si può dire che sia stato un disco coraggioso?
Lo è stato, sì.
Te lo chiedo perché venivate da un esordio come “Avete ragione tutti”, che è diventato immediatamente iconico, praticamente tutte le canzoni sono ormai delle hit, lo si vede anche quando le suonate dal vivo. Da lì, avete fatto un album molto meno diretto, più riflessivo se vogliamo, a tratti anche più complesso. Voglio dire, un brano come “Shakespeare”, che a mio parere è forse il vostro migliore in assoluto…
Addirittura!
Eh, secondo me sì! Appunto, un brano del genere, che ha una struttura atipica rispetto alle vostre solite cose, che usa la melodia in maniera differente, posto così in apertura era risultato parecchio spiazzante. Potrebbe essere un punto di partenza per una futura evoluzione sonora, secondo te?
Non si sa. Di sicuro me lo ricorderò come un disco coraggioso perché abbiamo lottato per farlo uscire così, senza nessuna modifica imposta. Poi sai, la differenza è che il primo disco era una sorta di “best of” di due anni di canzoni, mentre questo contiene brani che sono stati scritti in tre mesi, quindi la gestazione è stata ovviamente diversa. Non so dove andremo in futuro però indubbiamente il seme di quello che potrà succedere c’è già. Di sicuro ti posso dire che non voglio fare cose simili ad altre che ho già fatto. Cercherò di mantenere la stessa scrittura perché è la mia e non è che possa cambiarla, però sulla musica, non vorrei ripetere quello che è già stato fatto. Per cui non so se avrò voglia di pubblicare un'altra canzone che suoni come una ballad degli Oasis. Anche perché ho in mente i prossimi tour, dove avremo per forza di cose più dischi pubblicati, dove i concerti saranno più a fuoco, più vari, dove ogni canzone rappresenterà un mondo; di conseguenza, non vorrei avere dei doppioni di me stesso seminati lungo i dischi...
Ti racconto un aneddoto divertente: a luglio, quando avete suonato al Woodoo, ero lì con un amico e quando avete attaccato “Manzarek” e tutti hanno iniziato a cantarla, ho espresso a voce alta quello che mi domando sempre, quando una band come la vostra mette dentro in una canzone un riferimento culturale che appartiene ad una generazione precedente rispetto a quella della maggior parte dei suoi fan: “Chissà se tutti questi ragazzi che cantano a squarciagola questo testo, sanno chi era Ray Manzarek…”; ed il mio amico, molto tranquillamente, mi ha risposto: “E chi era?” (Risate NDA)
Beh, certo! A questa cosa ci credo tanto, fai conto che nella mezz’ora prima del concerto, quando viene mandata la musica, c’è solo roba selezionata da noi, gruppi che ascoltiamo spesso come Doors, Strokes, Beatles... è un modo per fare in modo che il pubblico si sintonizzi sulla nostra stessa lunghezza d'onda. Dopodiché, ti dico, questo titolo è nato per caso: avevo appena finito di scrivere la canzone e stavo mandando il provino agli altri ma non sapevo come chiamarla. Nel testo c’è un riferimento ai Doors ma Jim Morrison è intoccabile, non avrei certo potuto chiamarla “Morrison”! Allora, visto che alla fine c’è un assolino fatto con la tastiera, mi sono detto: “Questa roba mi ricorda Manzarek” e allora l'ho intitolata così. Certo, la conseguenza poi è stata che ogni giorno incontro gente che mi chiede che cos'è “Manzarek”, “Manzarèk” e io devo fare finta di non incazzarmi. Però fa anche parte del gioco: nessuno sa chi è Manzarek, a parte i fan dei Doors e gli appassionati di musica, però non è un reato non saperlo! Dall'altra parte però, chi lo scopre è anche più contento di ascoltarci, in un certo senso. Quando si scoprono queste chicche è un po’ come quando guardi un film che ti piace, poi ti vedi il backstage e scopri una citazione o un collegamento con qualche altro film a cui non avevi pensato e questo te lo rende ancora più prezioso. Quindi queste frecciatine, che poi sono frecciatine, riferimenti di gusto, sono nati casualmente ma poi va a finire che fanno da cornice a tutto un mondo…
Visto che stiamo parlando di tastiere, c’è una cosa che è da un po’ che vorrei chiedervi: voi dal vivo siete innegabilmente bravi, mettete in piedi concerti che sanno esser credibili e coinvolgenti. Eppure, ti confesso, il fatto che abbiate le tastiere in spia proprio non mi va giù. Anche perché nel vostro sound, questo strumento e in generale le orchestrazioni hanno un ruolo di primo piano e sarebbe bello che venissero suonate live…
È una cosa su cui anch’io combatto, perché mi piacerebbe avere dieci elementi sul palco. Poi però ti devi scontrare con la realtà... poi sai, se vai a vederti un concerto dei Coldplay, che sono forse oggi la band più grossa del mondo, non credo ci sia molto di suonato eppure non è che viene fuori un brutto concerto, capisci quello che intendo? Io credo che il mondo del rock, del pop sia stato ormai contaminato dall'aggressione della musica elettronica che c’è stata nell'ultimo decennio, per cui, per assurdo, devi riuscire ad avere la stessa qualità del suono di un dj set, che però manda delle canzoni che sono fatte in studio. Quindi nei concerti che cosa puoi fare? E soprattutto nei pezzi come i nostri, che hanno tanti strati di arrangiamento? O vai a fare concerti in quindici, con fiati, archi, più chitarre di quelle che già suoniamo, tastiere... così assomiglieremmo a degli hippy, tutti ammassati su un furgone (ride NDA)! Ovviamente questa cosa non è possibile. Però vorrei riuscire sempre di più ad avere credibilità e compattezza, a livello di progetto, per riuscire a mettere insieme un concerto dove questa difficoltà che tu senti, che ovviamente deriva da un trucco che adottiamo, venga superata. Perché ovviamente andrà suonata, prima o poi, anche se al momento ci sono dei limiti pratici.
Poi sai, non sono tanti ormai gli ascoltatori che notano questi particolari. Io ho avuto paranoie per mesi perché dicevo: “Qui però non possiamo mettere le basi, dai!” però poi mi capita di andare a concerti tipo Post Malone, che riempie le arene e sul palco è da solo, canta sulla base ma ha anche la voce in base e tira fuori degli show incredibili! Non vorrei distruggere l'ala dei puristi, però questa cosa forse va ripensata...
Sono d'accordo: ho visto Rosalia a giugno e l'impressione è stata simile, in effetti. Mi ha colpito anche quello che dicevi sul fatto che la gente non si accorge della differenza: anche secondo me, per quello che vedo, è così. È una cosa che riguarda soprattutto il pubblico più giovane, che ha voglia di vedere il proprio artista e non sta lì tanto a fare distinzioni, anche perché non è mai stato educato a farle…
Vero. Ma poi bisogna anche fare un discorso tecnico: i Beatles, al di là del fatto che si erano stufati, ad un certo punto si sono fermati coi tour perché non riuscivano a riprodurre adeguatamente le loro cose sul palco. Oggi, probabilmente, un disco come “Sgt. Pepper” si riuscirebbe a portarlo dal vivo (in effetti Paul McCartney quelle canzoni le suona abitualmente NDA). Capisci che in questi casi la tecnologia aiuta. Poi è anche vero che siamo andati a vedere i Baustelle e loro invece sono totalmente analogici, sono in nove e suonano fino all'ultimo campanello ed ovviamente è bellissimo... è un percorso: spero di arrivare ad avere tutto live, prima o poi...
Da ultimo, una considerazione: è evidente, piaccia o no, che siamo di fronte ad una fase totalmente nuova della musica Pop in Italia. Mi piacerebbe capire da te, che la stai vivendo dall’interno, perché così tanti ragazzi si stanno identificando nelle canzoni vostre e dei vostri colleghi. Voglio dire, come mai questi artisti sono diventati così generazionali? Ti sei fatto un’idea in proposito?
Secondo me c’è qualcosa di sociale, all'interno di questo fenomeno. Io credo che i Talent Show abbiano creato l'Indie, nel senso che tutta quella plastica che arrivava si è dovuta sfogare in qualche modo, quindi i cantautori, le band, si sono trovati a suonare in localini dove però le canzoni non erano scritte da cinquantenni ma da loro, raccontavano di loro, erano magari stonate ma erano vere, sincere. Grazie ad Internet poi si è creata una rete vera, sociale, che ha messo insieme tutto, ha unito la gente che andava a vedere questi concerti, ha messo insieme le persone. Se ci pensi, è la storia stessa della musica: perché a Woodstock c’era un sacco di gente? Perché erano tutti connessi allo stesso livello, nella stessa circostanza. O anche quello che succedeva ai concerti degli Oasis, per dire. E lo stesso discorso lo puoi fare con il calcio: perché chi tifa la stessa squadra allo stadio, in quel momento, si sente una cosa sola? Io credo che i concerti siano questa cosa qui. Ora, nel giro di tre o quattro anni, si è creata questa bella situazione che in Italia non si vedeva da un po’. Quando ho iniziato a scrivere canzoni, verso i 16-17 anni, quindi ormai più di dieci anni fa, se andavi nei locali a dire che avevi delle canzoni in italiano e chiedevi di suonare, ti mandavano affanculo! Regnavano le cover band, oppure quei gruppi di dopolavoristi che facevano assoli da sei ore sui pezzi Blues... quelle cose lì. Poi è successa questa scintilla dove sono usciti un po’ di dischi nello stesso anno. Non sono stati influenzati l’uno dall'altro, però per una serie di circostanze sono arrivati ad essere pubblicati a stretto giro. È una cosa unica, come dicevi tu, credo che tra anni lo si guarderà come un momento storico. Ora, non so dove andrà perché dipenderà dalle carriere di tutti capire se muoversi in una direzione oppure in un'altra, credo che tra dieci anni avremo un quadro più chiaro; però penso che già aver avuto la possibilità che un disco d’esordio come il nostro venisse così amato, distribuito e ascoltato è già una vittoria in primis. È una cosa bellissima, sono molto contento ma bisogna andare avanti ad impegnarsi, come se fossimo sempre alla prima canzone scritta, non bisogna adagiarsi sul consenso.