Lasciamo per un momento da parte giudizi e previsioni su quello che sarà il ruolo di Bonetti nel panorama musicale italiano dopo la pubblicazione del suo nuovo disco. La verità però è che è molto difficile non farsi tentare: “Non ci conosciamo più”, uscito a fine aprile, aveva lasciato intravedere un tale margine di crescita, nella proposta di un artista che aveva già dimostrato di saper fare cose di altissimo livello (si veda qui la recensione di “Dopo la guerra”) che, nonostante non ci fosse per il momento nient’altro a disposizione, si poteva lo stesso intuire che qualcosa di importante fosse accaduto. Oggi esce “Siamo vivi”, secondo estratto di quello che sarà il suo terzo lavoro e le cose non potrebbero andare meglio: in questo preciso frangente storico nessuno come Bonetti, tra i nomi emergenti, sta facendo di più per svecchiare la lezione del cantautorato italiano e contaminarla con suggestioni a cui è più o meno sempre stata estranea.
Ripeto, sapremo davvero solo quando avremo il disco tra le mani. Nel frattempo, abbiamo però voluto raggiungerlo al telefono per parlare con lui di queste due nuove canzoni.
A colpire, in questi due brani, è soprattutto la ricerca musicale, che ha fatto notevolmente crescere i pezzi. Ci muoviamo sempre in una dimensione cantautorale ma senza dubbio lo spettro sonoro è più ampio. E poi i testi, che sono il punto dove secondo me hai fatto il vero salto di qualità. Insomma, si sentono i modelli ma mi pare tu abbia raggiunto una statura che è veramente tua. È presto per giudicare ma mi pare di intuire che si tratterà di un lavoro importante…
Ti ringrazio! C’è stato un lavoro notevole, sia di scrittura che di produzione, ho provato ad alzare l’asticella, anche ampliando i miei ascolti. Per la prima volta mi sono messo al servizio di quello che stavo facendo senza preoccuparmi di calcoli su quale l’etichetta lo avrebbe pubblicato, sui singoli che sarebbero usciti… e come al solito Fabio Grande ha sposato in toto questa causa! Ci spero veramente tanto, ci ho messo dentro tutto e come puoi immaginare, in questo periodo non è facilissimo…
Quando uscirà, a proposito?
Ci stiamo prendendo più tempo del previsto, in queste condizioni crediamo sia meglio aspettare un po’. Sicuramente adesso è impensabile una tournée ma anche solo fare qualche data di presentazione davanti a 30 persone potrebbe essere una bella idea, diversa dal “tutti a casa ad ascoltarlo su Spotify”. Diciamo che al momento ti dico in autunno ma non riesco ad essere più preciso.
“Non ci conosciamo più” e “Siamo vivi” sono due brani piuttosto diversi come intenzioni, mostrano due anime differenti ma allo stesso tempo sono effettivamente due singoli, due pezzi che possono servire a presentare l’album…
Si tratta senza dubbio di due lati della stessa medaglia ma mi piace pensare che l’album abbia poi tre lati. Anzi, l’idea di far uscire un altro singolo va proprio in quella direzione, di far sentire un altro aspetto che ancora non si è visto. “Non ci conosciamo più” è quella che a tutti, a me e a tutto lo staff, è parsa essere immediatamente il primo singolo, proprio perché contiene tutta una serie di elementi che compaiono anche nel resto del disco; idem per il testo, che funge un po’ da fil rouge con altri argomenti che verranno trattati. Con “Siamo vivi” succede un po’ la stessa cosa: è molto diversa dalla prima anche se riascoltandole insieme, ci sono dei punti in comune per testo, arrangiamento ed atmosfera. Mi sembrava curioso anche stimolare l’ascolto verso una ricerca di collegamento che, alla fine, se la cerchi la trovi. Non a caso, sono due pezzi che sono stati scritti più o meno nello stesso periodo e separatamente dagli altri, che sono venuti parecchio dopo. Ecco, per dirla in breve, se ci fossero ancora i 45 giri sarebbero proprio il classico lato A e lato B, dove poi ognuno sceglie il suo preferito.
“Siamo vivi” è un po’ una canzone profetica, potrebbe andare bene per illuminare il tempo che stiamo vivendo, anche se ovviamente è stata scritta prima…
Sì ma non è difficile: è talmente grossa la cosa, senza termini di paragone, che è evidente che tutto venga visto attraverso questo filtro. In realtà poi è una canzone che parla di disoccupazione. Poi c’è stata una ricerca di testo notevole, nel senso che ho voluto rendere il concetto attraverso le immagini, piuttosto che con un discorso. È una canzone autobiografica perché quando l’ho scritta ero in una situazione in cui non sapevo se avrei vissuto di musica o se avrei dovuto fare altri lavori; alla mattina mi ritrovavo a volte sulla banchina della metropolitana e guardare la gente di corsa, con l’occhio all’orologio è un’immagine che agli occhi di uno che non ha un’occupazione fissa è molto forte, ti senti quasi escluso da quel mondo di chi ha orari da rispettare, impegni, appuntamenti… e poi anche la scena di Chinatown, che sembra fatta apposta per evocare tutta la storia recente, in realtà è un posto che mi piace molto, mi ci ritrovo spesso a passeggiare; anche lì, se ti senti disoccupato, senza grandi impegni, vedi tutti che si muovono in maniera frenetica e ti senti escluso da quel mondo. Però il concetto poi è che siamo vivi, l’estate arriverà per tutti, il mondo andrà avanti. Ho cercato di non essere troppo didascalico, di spostare lo sguardo un po’ più in là però il concetto è quello: “Siamo vivi nonostante le difficoltà, nonostante tutti gli ostacoli che troviamo sul nostro percorso”.
Vedi, io non l’avevo per niente intesa così. Ma forse non l’ho ascoltata con sufficiente attenzione…
Ho filtrato molto le immagini, non volevo fare la canzone anni ‘70 sul diritto al lavoro! Poi però, senza volerlo, si è trasformata in un qualcosa di molto attuale. Anzi, la mia paura è proprio di essere frainteso, di essere accomunato a slogan di facile ottimismo come “Andrà tutto bene”!
Beh sai, credo sia comunque una cosa importante uscire in questo momento con un pezzo che s’intitola “Siamo vivi”. E, aggiungerei: “Siamo anche contenti della nostra vita”.
Certo! Non mi dispiacerebbe se passasse anche quel messaggio lì, legato all’attualità di oggi, anche perché il discorso disoccupazione temo che tornerà fortemente in primo piano nei prossimi tempi. Però ecco, in linea generale: siamo vivi e dobbiamo portare rispetto alle nostre vite.
Anche perché poi si dice spesso: “Se c’è la salute, c’è tutto!” ma non mi sembra molto sensato. Voglio dire, al di là del fatto che essere sano non dipende totalmente da te, se poi vivi una vita che non ti piace o, peggio, non sai per cosa vivi, che senso ha? C’è un sacco di gente che non esce di casa per paura di ammalarsi e io la posso anche capire ma poi mi verrebbe da chiedere: “Ma tu che cos’hai da difendere, di così importante?”
Sono assolutamente d’accordo. Si rischia di fare come in quel bellissimo romanzo di Fenoglio, “La paga del sabato”, col protagonista che si rifiuta di andare a lavorare e a fine giornata vede gli operai uscire coi soldi in una mano e nell’altra la cenere della giornata che hanno bruciato. Il discorso è un po’ quello, in fondo: stare dentro a guardare come vanno le cose è bruciare la propria giornata.
In “Non ci conosciamo più” ho notato che hai fatto una sorta di evoluzione nella scrittura, nel senso che hai integrato le immagini di quotidianità dimessa tipiche delle tue canzoni, con una dose maggiore di metafore, che in qualche modo elevano la dimensione del testo, radicandolo in un contesto indefinito…
Penso sia vero; o meglio, nelle mie intenzioni ho provato a fare così, poi non è certo mio compito dire se ci sia riuscito o meno! Quando ho scritto questi pezzi ero dentro la musica a 360 gradi, il mio primo lavoro era proprio comporre e suonare in giro. Di conseguenza, ho avuto modo di concentrarmi molto di più su quello che facevo. Aver cambiato città, aver cambiato lavoro, aver dato finalmente più spazio alla musica, mi ha sicuramente fatto crescere. Concentrandomi così tanto su una cosa per me così importante, ho probabilmente sviluppato degli aspetti che se avessi continuato a fare la vita di prima non sarei riuscito a scavare così a fondo. E a forza di scavare nel quotidiano, si abbatte un po’ il muro temporale per cui, come succede in “Non ci conosciamo più”, il passato diventa in qualche modo anche futuro, si mischia tutto quanto insieme…
La bellezza e la suggestività della canzone deriva proprio il fatto che si presti a molte letture. Anche se magari chiedere all’autore che cosa significhi una canzone che ha scritto può essere una domanda del cazzo…
Secondo me no, anzi. Sicuramente preferisco quelli che me lo chiedono piuttosto che quelli che sparano cose a caso, come è avvenuto anche per questa: ok che c’è il sax ma non mi sembra proprio una canzone sexy… (ride NDA)
Il “non ci conosciamo più” è una frase a due significati: da una parte c’è l’idea delle certezze che vengono meno, dell’essere lasciati spaesati in balia dell’ignoto nell’incapacità di muoversi; dall’altra però, potrebbe anche affermare che le persone non si conoscono mai fino in fondo, che l’altro è un mistero infinito per cui dire “non ci conosciamo più” potrebbe rappresentare anche un punto di partenza per approfondire ancora di più un legame reciproco…
La prima persona plurale inganna, come spesso in Italia: quel “noi” non è riferito ad una coppia quanto ad una generazione. Ho 35 anni, sono in quella fase in cui guardo al passato, al presente ma ripenso anche il futuro perché ovviamente ora sto di fronte alla vita in maniera diversa rispetto a dieci anni prima. Finché sei ragazzo il futuro è ancora una dimensione in cui puoi realizzare tutto quello che vuoi, nella modalità che hai in testa. A 35 anni o sei scemo oppure, per forza di cose, devi rimettere a fuoco un bel po’ di questioni! Nelle intenzioni esprime quindi un discorso generazionale: fare il punto della situazione ma, collegandomi al discorso che facevi ora, che condivido perfettamente, penso anch’io che ci si conosca con gli altri, con una persona specifica, e che ci si debba in continuazione ri-conoscere: si cambia, cambia il mondo attorno a noi, cambia il momento storico, è fondamentale riconoscersi. Anche la presa di coscienza del “non mi conosco più”, può essere il punto di partenza per provare a ricollocarsi in questo nuovo contesto.
E l’immagine del binario abbandonato? La stazione è un po’ il luogo delle partenze, dei ritorni, degli addii…
Dei viaggi, anche! E poi il binario è anche quella cosa che, se guardi a sinistra hai la partenza, se guardi a destra hai la direzione da cui provieni. È una metafora per dire che nella vita siamo come su un binario: si va da una parte o si va dall’altra ma ci sono anche quei momenti in cui scendi da quel binario, ti siedi sulla banchina, guardi dove stai andando e ti guardi un po’ da fuori, vedi che strada hai fatto, chi sei diventato e puoi scegliere di risalire oppure no.
Sono comunque due brani che, a modo loro, parlano di presente, no?
Alla fine sì. Anzi, tornando alla tua domanda di prima, direi che il quotidiano c’è sempre ma piuttosto nell’accezione del presente, rispetto a quanto ho fatto in passato.
Sicuramente non sono brani nostalgici, nonostante certe atmosfere lo possano far pensare…
Assolutamente, infatti. In generale è un disco molto legato al presente, anche quando si guarda al passato o al futuro, lo sguardo è sempre filtrato dalla dimensione presente.
Prima hai detto di aver lavorato di più sulla produzione e di avere ampliato i tuoi ascolti. Questi sono pezzi molto “pieni”, in effetti. Non c’è più quell’atmosfera un po’ lo fi, à la Pavement, che emergeva in certi tuoi pezzi, ci ho sentito dentro piuttosto il Dalla di “Viaggi organizzati” ma anche certe cose un po’ ottantiane in stile Chromatics, per dire…
Mi sono posto come impegno personale quello di uscire da una certa dimensione di ascolti. Ovviamente, avendo una certa età, i dischi e gli artisti che mi hanno accompagnato sono lì, non ho più neanche bisogno di ascoltarli. “Viaggi organizzati” non so da quanto tempo non lo metto su eppure è mio, lo conosco benissimo. Per questo disco, soprattutto la parte musicale e gli arrangiamenti, che per me sono sempre molto importanti, ho cercato di ampliare le influenze, con tutta una serie di artisti della Black Music: J Dilla, D’Angelo, Kamasi Washington, Thundercat e in generale tutti quei dischi dove l’hip Pop sfocia nel New Jazz, oppure la Vaporwave, con questi sax eterei, le voci rallentate… insomma, ho fatto ascolti molto diversi, anche su consiglio di Fabio Grande. Ovviamente non ci sono parti rappate ma lo spettro sonoro e stilistico è senza dubbio più ampio. Sporcare il cantautorato con elementi che arrivano da tutte le parti, direi che ci siamo prefissati questo.
È interessante il discorso che fai perché, pur essendo tornato da Fabio Grande e Pietro Paroletti, non avete voluto replicare la formula del disco precedente, che è poi il rischio che a volte si corre quando ci si affida sempre allo stesso team di produzione…
Con Fabio e Pietro è scattata la scintilla lavorando su “Dopo la guerra”, altrimenti non avremmo mai deciso di fare un altro disco insieme. Mi ricordo che già quando stavamo chiudendo quel disco lì, ci era venuta la voglia di sviluppare ulteriormente delle soluzioni che in quella sede avevamo solo abbozzato: per dire, già un pezzo come “Dobbiamo tirare fuori qualcosa” aveva dentro degli elementi che possono c’entrare con quello che abbiamo fatto adesso. C’era l’idea di prendersi altro tempo e credo che con questo disco siamo riusciti a muoverci come volevamo, con la giusta carica, conoscendoci anche di più e quindi per tanti aspetti lavorando meglio. Sono molto soddisfatto dal risultato finale ma anche loro, ovviamente!
Hai mantenuto la collaborazione con Costello’s e Labellascheggia ma hai cambiato etichetta, entrando nel roster di Bravo Dischi…
Sono proprio felice perché è una realtà che da tempo guardavo da lontano. Senza esagerare, secondo me è una delle due o tre etichette che lavorano meglio, per il genere che faccio io. Era un po’ un sogno entrare da loro, quindi è bellissimo esserci arrivato! Anche in termini pratici è tutto più bello perché siamo di più a lavorare sul progetto e quindi ognuno può concentrarsi su una parte. Sono davvero onorato di far parte del loro catalogo, sono uno dei riferimenti più interessanti per chi fa cantautorato oggi. Volevamo andare avanti a crescere tutti insieme, sia con Costello’s che con Labellascheggia, sono contento che due vecchie realtà si siano fuse con loro, assieme anche a Peermusic, che è importantissimo per la distribuzione digitale.