“Il passaggio dell’anno non aveva lasciato dietro di sé il solito rigagnolo calamitoso di morti, come se la vecchia atropo dalla dentatura digrignata avesse deciso di inguainare la forbice per un giorno.”
José Saramago (Azinhaga, Portogallo, 1922 – Tías, Isole Canarie, 2010) è indubbiamente uno dei più grandi scrittori contemporanei, talmente grande che tutte le volte che mi ritrovo a leggere un suo romanzo, c’è un aggettivo che più di altri mi risuona nella testa, ed è “geniale”.
Sì, Saramago è un genio assoluto e il modo in cui riesce a costruire la trama delle sue storie, danzando senza sosta tra momenti ironici, grotteschi, drammatici, poetici e fantastici, ne è la dimostrazione.
È stata una vita travagliata la sua, fatta di stenti e rinunce che lo hanno portato ad abbandonare gli studi e a trovarsi un lavoro per contribuire al sostentamento della sua famiglia. Ha fatto il fabbro, il disegnatore, il traduttore, il correttore di bozze, il giornalista e, per diversi anni, il direttore letterario per una casa editrice.
Il suo lavoro come giornalista venne costantemente osteggiato e sottoposto a censura da parte del regime di Salazar, di cui era un fervente oppositore, tant’è che nel 1959 si iscrisse al Partito Comunista Portoghese, che all’epoca era ancora clandestino.
A partire dal 1966, iniziò a pubblicare le sue opere. La vera svolta, però, arrivò solo nel 1977, con il romanzo “Manuale di pittura e calligrafia”.
Nel 1988, venne insignito del Premio Nobel per la Letteratura perché "con parabole, sostenute dall'immaginazione, dalla compassione e dall'ironia ci permette continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare"; un Premio Nobel che, viste le posizioni antireligiose dello scrittore, fu accompagnato da grandissime polemiche provenienti dal mondo cattolico.
Chi ha avuto la fortuna di leggere qualche romanzo di Saramago sa quanto originali e fuori dagli schemi siano tutte le sue storie. In “Cecità”, ad esempio, tutta la popolazione, a causa di un’epidemia, si ritrova improvvisamente cieca. Ne “Il vangelo secondo Gesù Cristo”, tratteggia il Messia come un uomo qualunque, ostaggio di paure, passioni e crisi esistenziali. Ne “Le intermittenze della morte”, invece, si diverte a sfidare la morte e a mettere in discussione una delle poche e brutali certezze che abbiamo e cioè, che a un certo punto della nostra vita, volenti o nolenti, ci tocca morire e ci pone, così, dinnanzi a un quesito immenso: se da un momento all’altro non esistesse più la morte, che ne sarebbe di noi? Che impatto avrebbe sulle nostre vite e sugli equilibri, più o meno fragili, su cui si poggia l’intero sistema su cui abbiamo costruito le nostre esistenze?
Saramago lo racconta in modo magistrale tra le pagine di questo libro che spingono il lettore a un approccio non solo critico, ma anche e soprattutto aperto a una narrazione indubbiamente surreale ma che, paradossalmente, finisce con il risultare estremamente realistica.
Così, il primo gennaio di un anno imprecisato, in un paese altrettanto imprecisato, non muore più nessuno. E no, non si tratta di un caso o di una banale coincidenza: sembra proprio che la morte si sia messa in sciopero.
Però, si tratta di una “non morte” anomala, che non contempla l’eterna giovinezza, ma uno strano stato di sospensione, qualcosa che somiglia a un sonno profondo durante il quale la vita di chi è arrivato a “fine corsa” continua ad avanzare. La carne è calda, deperisce, avvizzisce, ma non muore.
Non muoiono i vecchi, i malati terminali, le vittime di incidenti, con i corpi dilaniati e ridotti in brandelli… No, non muore più nessuno.
Da principio, nella comunità, viene a crearsi uno stato di euforia. Gli abitanti del paese si sentono “miracolati”, “prescelti”, “eletti”, perché, senza sapere bene come, sono riusciti a sconfiggere quella che da sempre è la più grande paura dell’uomo. Quella paura che, dal tempo dei tempi, riempie pagine e pagine di letteratura, ponendo l’essere umano, suo malgrado, in una posizione di impotenza dinnanzi alla morte e al suo essere imprevedibile, cieca e definitiva.
“Accetteremo la sfida dell’immortalità del corpo, esclamò in tono esaltato, se quella sarà la volontà di dio, che ringrazieremo sempre in eterno, con le nostre preghiere, di avere scelto il buon popolo di questo paese quale suo strumento.”
Ben presto, però, quello che sembrava un dono divino, finirà con l’assumere le connotazioni di una immensa sciagura. Si assiste all’inevitabile crisi del sistema economico, sociale, politico e morale.
Cosa fare di tutti questi corpi che ne stanno lì, sospesi tra la vita e la morte, come zavorre, totalmente inutili per la società?
Le case di riposo e gli ospedali si riempiono a dismisura di corpi inerti, fino ad arrivare alla paralisi; le famiglie dei moribondi convivono con il disagio di doversi prendere cura dei loro cari che “non morivano” e “non erano vivi”; le pompe funebri, per la prima volta da sempre, si ritrovano senza morti a cui fare un funerale, e rischiano il collasso; le compagnie assicurative sono sommerse da centinaia e centinaia di lettere contenenti l’ordine di cancellazione immediata delle polizze sulla vita; per non parlare della Chiesa… com’è possibile conciliare la vita eterna con la promessa della resurrezione? Come continuare a far credere ai fedeli che vivere seguendo gli insegnamenti di dio sia l’unico modo per evitare l’inferno e assicurarsi un posto in paradiso?
L’aspetto più singolare della questione è che al di fuori dei confini del paese “miracolato”, la vita e la morte continuano a scorrere come sempre, senza interruzioni di sorta e questa circostanza, com’era prevedibile, si trasformerà in una succulenta opportunità di business per la “maphia” che si occuperà, sotto pagamento di laute somme e attraverso una serie di accordi illeciti anche con lo stato, che a volte “non può far altro che rimediare fuori qualcuno che gli faccia i lavori sporchi”, di trasportare i moribondi oltre il confine del paese, per porre fine al loro viaggio sulla terra e ristabilire, in un certo senso, l’ordine naturale delle cose.
Dopo aver sviscerato in modo ironico e a tratti grottesco tutte le implicazioni di ordine “pratico” legate alla “non morte”, Saramago cambia direzione e ci regala pagine di poesia pura, in cui il dibattito sulla natura della morte si sposta su un campo decisamente più filosofico.
“Prima, al tempo in cui si moriva, in quelle rare volte che mi sono trovato davanti a qualcuno che era deceduto, non ho mai pensato che la sua morte fosse la stessa di cui un giorno sarei morto io, Perché ciascuno di voi ha una propria morte, la porta con sé in un luogo segreto sin da quando nasce, lei appartiene a te, tu appartieni a lei”.
È a questo punto che si assiste al colpo di scena, perché la morte in persona, dopo 7 mesi di “sciopero”, annuncia la ripresa delle sue attività. Lo fa attraverso una lettera di colore viola indirizzata al direttore generale della televisione locale. Il contenuto della missiva è a tratti bizzarro, in quanto non solo la morte si preoccupa di chiarire quali fossero le intenzioni poste alla base della sospensione delle sue funzioni, ma soprattutto, ci tiene a informare la popolazione intera che a partire dalla mezzanotte di quel giorno si tornerà a morire, però, a differenza di quanto accadeva in passato, la dipartita non avverrà più in modo brutale, “a tradimento, senza preavviso, senza un’allerta”, ma verrà annunciata attraverso una lettera, anch’essa viola, inviata con una settimana di anticipo, per dare il tempo, a chi è ormai giunto alla fine della sua corsa, di risolvere tutte le questioni in sospeso.
La morte tratteggiata da Saramago ha dell’incredibile, in quanto è assai lontana da quelli che sono gli stereotipi da sempre associati a questa figura. Questa morte è impacciata, insicura, timorosa e non si fa problemi nell’ammettere pubblicamente di aver commesso degli errori. È una morte quasi umana, a tratti magnanima, che si sforza di entrare in una sorta di connessione emotiva con gli esseri umani, nonostante riconosca di non possedere gli strumenti idonei a comprendere fino in fondo il ventaglio di stati d’animo e di emozioni che li abitano. Non solo, nelle sue lettere, quasi come fosse un’emulatrice dello stile Saramago, fa un uso non convenzionale della sintassi e della punteggiatura e soprattutto esige che il suo nome venga scritto con la “m” minuscola, perché lei è “la morte” e non “la Morte”. Tutto questo, naturalmente, la espone ad aspre critiche da parte dei puristi della lingua, che si divertono a sbeffeggiarla: “Secondo l’autorevole opinione di un grammatico consultato dal giornale, la morte, semplicemente, non dominava neppure i primi rudimenti dell’arte dello scrivere.”
Così, allo scoccare della mezzanotte, le lettere che si erano accumulate nei 7 mesi di inattività, per la precisione sessantaduemila cinquecentottanta, iniziano a partire, puntuali come un orologio svizzero: “dopo la lunga sosta di sette mesi, non ha occhi né orecchi per le urla di disperazione e angoscia degli uomini e delle donne che, uno dopo l’altro, vengono avvisati della morte prossima, disperazione e angoscia che, in alcuni casi, stanno causando effetti esattamente contrari a quelli che si erano previsti, cioè, le persone condannate a scomparire non risolvono le loro faccende”.
L’intera comunità le si scaglia contro, accusandola di essere “impietosa, crudele, tiranna, malvagia, sanguinaria” e così la morte, ancora una volta, dovrà fare i conti con la realtà, qualunque sia il metodo adottato, agli esseri umani, quando si tratta di morire, non va mai bene nulla…
Ma lei non se ne cura, le lettere, una dopo l’altra, raggiungono tutti i destinatari, tranne una che, per ben tre volte, le torna indietro. La morte è incredula, perché “non s’è mai visto che non morisse chi doveva morire.” Eppure, la data della morte era lì, scritta in modo chiaro sul cartellino di quell’uomo, accanto a quella della nascita… Si trattava di un violoncellista di 49 anni, che evidentemente, non ne voleva proprio sapere di morire. “È impossibile, disse la morte alla falce silenziosa, nessuno al mondo o fuori dal mondo ha mai avuto più potere di me, io sono la morte, il resto è nulla.”
La morte, sconcertata, vuole vedere con i propri occhi che aspetto ha quell’uomo che ha osato sfidarla… vuole capire chi è, com’è, dove vive e come trascorre le sue giornate, perché è certa che prima o poi riuscirà ad ammazzarlo senza infrangere troppo i regolamenti a cui deve attenersi.
Decide di fargli visita mentre dorme, “né visibile, né invisibile, né scheletro né donna”, si reca in perlustrazione a casa sua. Scopre che l’uomo vive da solo, con il suo cane e che si ciba di musica. Si sofferma a guardare la partitura della suite numero sei in re maggiore di Bach, lasciata aperta su una sedia e poco dopo, senza capire bene il perché, si abbandona al pianto o a qualcosa di simile…
La morte, sempre più determinata a portare a termine il suo compito, realizza che c’è una sola cosa da fare: vestire i panni di una giovane donna, peraltro molto affascinante, e bussare alla porta di casa del violoncellista, per consegnargli di persona quella lettera viola…
Immagino che la vostra curiosità, ora, sia alle stelle, ma per scoprire quale sarà l’epilogo della storia, dovrete dedicarvi alla lettura di questo romanzo straordinario e imprescindibile, che ha come protagonista la morte più umana mai descritta, nei confronti della quale, incredibile a dirsi, è quasi impossibile non provare un pizzico di simpatia e sono certa, che arrivati all’ultima pagina, anche voi giungerete alla conclusione che forse, ciò che ci salva davvero, in questa vita, è l’amore… “Omnia vincit amor et nos cedamus amori.”