I grandi cambiamenti in casa TOdays Festival, con la Fondazione Reverse che ne ha preso in mano la direzione artistica al posto di Spazio211, che con Gianluca Gozzi e i suoi collaboratori aveva di fatto creato un brand che era tra i pochissimi in Italia a potere confrontarsi seriamente con le più blasonate proposte straniere, aveva provocato non poche polemiche e suscitato incertezze. I dubbi, evidentemente, riguardavano soprattutto la capacità e la volontà dei nuovi organizzatori di mantenere lo spirito originario della manifestazione, sia come qualità che come tipologia degli artisti coinvolti.
L'annuncio del programma completo ha fatto capire che ci troviamo più o meno nel mezzo: da una parte c'è stato il coinvolgimento di act come Massive Attack e Lcd Soundsystem, che difficilmente, per un mero discorso economico, sarebbero stati alla portata dei precedenti promoter. E si è in qualche modo mantenuta l'idea di chiamare artisti ancora non troppo conosciuti ma dalle sicure potenzialità (vedi English Teacher, Elephant Brain e Nation of Language).
Dall'altra parte, tuttavia, si è verificata una certa dispersione della proposta, con un numero più elevato di giornate ed un carattere più eterogeneo degli artisti coinvolti (Mahmood non sarebbe mai entrato nella programmazione degli anni precedenti, per dire). È anche evidente che, in molte serate, non ci sia più quell’omogeneità di dimensione che si tendeva a creare in precedenza: banalmente, adesso c’è un headliner ben delineato, che non solo suonerà per più tempo ma che ha anche il compito esplicito di attirare gli spettatori, mentre i restanti tre componenti del cartellone non hanno tutto questo richiamo (in alcune giornate però gli act di rilievo sono due, come accadrà ad esempio per l’accoppiata Arlo Parks e Tangerine Dream).
Al di là di queste evidenti (ma anche legittime) differenze di impostazione, il TOdays non sembra essersi snaturato come molti temevano alla vigilia.
A questo giro ho comunque preferito optare per la partecipazione a singole serate, e una di queste non poteva che essere quella degli Lcd Soundsystem, vale a dire la prima a pagamento, che ha preceduto quella inaugurale a ingresso gratuito (una piacevole novità di questa edizione) che ha visto come protagonista Jeremiah Fraites dei Lumineers.
Partiamo dalla location. Siamo al Parco della Confluenza, adiacente a piazza Sofia, Circoscrizione 6 di Torino, mantenendo dunque viva quella volontà di valorizzazione delle periferie che era uno dei punti principali del progetto originario. Si tratta di un’area più vasta, così come è più grande il palco, per cui è evidente che l’obiettivo sia quello di allargare il bacino di utenza. Ci sono i soliti stand di cibo (quest’anno anche uno che vendeva gelato) e, a occhio, i prezzi sono sembrati in linea con gli altri anni (tranne la birra, aumentata sensibilmente), vale a dire alti ma non da rapina e, particolare non indifferente, niente Token.
Dopo un ritardo nell’apertura dei cancelli, dovuto ad un soundcheck andato per le lunghe, si parte con i Giulia’s Mother: il duo di Andrea Baileni (chitarra e voce) e Carlo Fasciano (batteria) gioca quasi in casa, visto che è originario di Rivarolo. Due dischi per loro, l’ultimo (Here) risalente al 2017, anche se hanno concluso il loro breve set con un brano nuovo, rendendo lecite le speranze per l’uscita di un nuovo lavoro. Alt Folk di grande fascino, sostenuto da parti chitarristiche raffinate e da improvvisi slanci rumoristici, con code strumentali che profumano di Post Rock.
La formazione a due è inusuale ma dal vivo suonano più pieni di quanto si sarebbe tentati di immaginare. La voce di Andrea poi è particolarmente espressiva e le canzoni possiedono tutte un buon gusto melodico. Magari in molti avrebbero voluto qualcuno di più conosciuto per iniziare, ma non si può dire che sia mancata la qualità. Speriamo di risentirli presto.
Interessante, e niente affatto fuori posto, in una giornata che privilegia ritmi danzerecci, il set di Khompa, progetto di Davide Compagnoni, batterista e compositore che, tramite drum kit, controlla tutte le partiture elettroniche che vengono “lanciate” ed elaborate durante il concerto. Perceive Reality, il disco del 2022, tuttora il suo ultimo lavoro in studio, viene presentato con l’aiuto di splendidi visual realizzati da Akasha (Riccardo Franco-Loiri) che al termine dell’esibizione è salito sul palco a prendersi i meritati applausi.
Musica non sempre immediata, in equilibrio tra Four Tet e Floating Points, con una buona dose di Techno soprattutto nel finale. Da risentire in un contesto più ampio.
I Nation of Language li avevo appena visti ad Ypsigrock e ancora una volta offrono una prova quadrata e convincente. L’ultimo Strange Disciple sembra aver rinunciato alle hit immediate per esplorare territori più complessi e riflessivi, un dato che non può non avere ricadute sull’esibizione, meno “sporca” rispetto agli esordi e probabilmente più “seriosa” nei toni.
Tra New Order e Human League, il loro Synth Pop vede ora in primo piano pezzi da novanta come “Weak in your Light”, “Sole Obsession” e “Too Much Enough”, anche se i vecchi classici come “On Division St”, “The Wall & I” e soprattutto “Across That Fine Line”, dal vivo sembrano sempre avere una marcia in più.
Benissimo Ian Richard Devaney, autore di un’ottima prova vocale e piacevole nei suoi sporadici interventi chitarristici (è uno strumento che a mio parere dovrebbero usare molto di più in sede live); Alex MacKay martella implacabile con il suo basso, mentre Aidan Noell suona sempre troppo poco, dando l’impressione che le parti preregistrate si prendano uno spazio eccessivo.
Per carità, il genere prevede anche queste soluzioni, loro sono solo in tre e in ogni caso sono sempre all’altezza della situazione. La sensazione che manchi qualcosa, tuttavia, non può essere cancellata così facilmente.
Sugli Lcd Soundsystem non sono così sicuro che serva scrivere qualcosa. Basterebbe dire che si tratta di una delle live band migliori del pianeta, che questa sera lo hanno confermato, e avremmo finito qui.
James Murphy e soci mancavano da sei anni e nel frattempo, a parte un live in studio ed una manciata di estemporanei singoli, nulla è accaduto sul fronte discografico. È significativo che nel pomeriggio ci sia stata nell’ambito della parallela rassegna del Seeyousound Film Festival, la proiezione di Meet me in the bathroom, tratto dall’omonimo libro di Lizzy Goodman, che racconta proprio quella esplosiva scena newyorchese di cui gli Lcd Soundsystem furono protagonisti. Non è rimasto più nulla, di quella stagione. Oggi gruppi come Interpol e Strokes fanno buoni dischi ma sono artisticamente irrilevanti, i Vampire Weekend sono da poco tornati con un album fantastico ma anche qui, l’impressione è che il loro treno sia già passato. I Been Stellar, che sono tra gli esordi migliori di quest’anno, si sono trasferiti a New York proprio con l’idea di replicare le gesta dei loro beniamini, hanno trovato una città cambiata, locali scomparsi ed una scena scomparsa. A rimanere, probabilmente, è solo la musica.
Gli Lcd Soundsystem vivono ancora oggi di un passato glorioso e fin troppo breve; dopo lo scioglimento si sono riuniti due volte: la prima hanno realizzato American Dream, la seconda è adesso e non si sa che cosa succederà. Di sicuro c’è che il disco, meraviglioso, del 2017, è stato pressoché ignorato (in scaletta la sola “Tonite”) per lasciare spazio a una trafila di brani dei primi tre dischi, quelli indelebilmente incisi nella memoria collettiva. Un po’ di coraggio in più sarebbe stato gradito, ma ormai la band è questa, e chi la va a vedere probabilmente questo si aspetta.
Tutto inutile quindi? Niente affatto, perché come ho detto prima, quando salgono sul palco non fanno prigionieri e ricordano a tutti che scrivere canzoni immortali e saper suonare dal vivo sono due abilità del tutto differenti. James Murphy e Nancy Whang guidano un collettivo di otto musicisti, con un armamentario tale di roba, tra tastiere, sintetizzatori, batterie e percussioni, da stare stretti anche su uno stage dalle dimensioni non certo ridotte.
A dispetto del sound da sempre contaminato con l’elettronica, ogni singola nota è suonata, non ci sono sequenze o basi preregistrate, tanto che il gruppo viaggia totalmente senza click, una scelta che, al di là della difficoltà tecnica, non può che garantire una maggiore dinamicità allo show. Ripetizione ossessiva dei pattern, crescendo, gestione superlativa delle dinamiche, un tiro complessivo da paura; niente può preparare a quello che il collettivo di New York è in grado di combinare in concerto, e io che non li vedevo in azione da sette anni, realizzo in fretta che mi sono mancati da morire.
L’inizio “geometrico” con “Us v Them” e “I Can Change”, con gli inevitabili rimandi ai Kraftwek, una “You Wanted a Hit” che fa salire l’adrenalina, “Tribulations” sempre ballabilissima, una “Movement” tiratissima e quasi Punk, con conseguente scatenarsi del pogo nelle prime file. Poi “Tonite”, groovy ed ipnotica come sempre, quella “Losing My Edge” che Simon Reynolds ha trasformato nel manifesto programmatico della Retromania, eseguita con un arrangiamento strumentale fantasioso e movimentato, con le divertenti citazioni di Suicide e Daft Punk (a proposito, “Daft Punk is Playing in my House” non l’hanno fatta ma in qualche modo me l’aspettavo, oggi forse apparirebbe un po’ troppo storicizzata).
“New York, I Love You but You’re Bringing Me Down” è un canto d’amore alla loro città, una prima parte con James Murphy al piano elettrico ed una seconda full band, con un finale tirato e rumoroso, un’iniezione di rock tradizionale in un concerto che si è mosso su tutt’altri binari. E ovviamente, le progressioni irresistibili di “Dance Yrself Clean” e “All My Friends”, che chiudono un’ora e mezza di livello quasi irreale, oltretutto con una resa sonora superlativa, con un trattamento maniacale di ogni singola nota, nonostante il carattere rumoroso e festaiolo dell’insieme.
Sarebbe bello che facessero un altro disco, visto che l’ultima volta è successo hanno dimostrato di esserne ancora in grado; detto questo, un concerto così non so in quanti, oggi, siano in grado di farlo. Anche questo conta, dopotutto.