Questo disco, ve ne accorgerete subito, potrebbe essere stato inciso tranquillamente nel secolo scorso, magari in un decennio compreso tra la metà degli anni ’70 e la metà degli ’80, e gli unici tocchi di modernità, quando ci sono, richiamano al massimo la decade successiva.
La band fondata dal chitarrista Peter Scheithauer (Killing Machine, Belladonna, Temple of Brutality) e dal cantante Butcho Vukovic (Watcha, Showtime) impasta un roccioso hard rock, virato spesso verso sonorità di classic metal, pescando a piene mani fra suoni e attitudini di grandi del genere quali Rainbow, Black Sabbath, Deep Purple, Ronnie James Dio e Ozzy Osbourne. La presenza in studio, poi, di sessionisti dal lungo e nobile pedigree, come Bob Daisley (Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow) al basso, Vinny Appice (Dio, Black Sabbath) alla batteria, e Don Airey alle tastiere (Deep Purple, Rainbow) insuffla di energia un suono altrimenti datato e alza di parecchio il tasso tecnico dell’esecuzione.
Tutto già sentito e risentito, diranno prevedibilmente i detrattori, ed è quasi impossibile dar loro torto. Ogni brano è una cavalcata elettrica basata su un riff roccioso, su cui si dispiega il cantato e una sequenza micidiale di assoli, la sezione ritmica (con il grande Vinny Appice sugli scudi) è martellante, e la voce di Vukovic possiede un timbro che evoca a ogni piè sospinto quello di Ozzy Osbourne.
Tuttavia, a dispetto di un canovaccio prevedibile (ma non logoro), non sfuggirà agli appassionati di genere, che questa band possiede un tiro superiore a molte altre che si limitano al più classico dei copia incolla: il disco fila come un treno in corsa per tutti gli undici brani in scaletta (e nonostante la lunga durata del disco, ben cinquantatré minuti, non c’è un momento di cedimento), i cinque stanno sugli strumenti con piglio da ventenni, e le composizioni, pur non possedendo lampi di originalità, sono tutte incredibilmente buone. Valore aggiunto per chi ama un approccio duro e puro, poi, è che le melodie, pur presenti, si inchinano di fronte alla potenza delle esecuzioni e che, in tutto il disco, non c’è nemmeno l’ombra di un momento più raccolto o intimo, un lentone o una ballata.
I Last Temptation non smettono di randellare, a partire dai sei minuti sparati di I Win I Loose, per continuare con il singolo spacca ossa Blow A Fuse, in cui Ozzy Osbourne è più di una semplice fonte d’ispirazione, gli echi Deep Purple di Coming For You, o la splendida Nobody Is Free, il cui cupo riff invischiato di psichedelia e il cantato raddoppiato chiamano in causa addirittura gli Alice In Chains.
Insomma, un disco dall’ossatura decisamente vintage, ma dalla muscolatura guizzante e ben tonificata. Chi ama il genere, non resterà deluso.