Ho girato e rigirato questo vinile tra le mani, l’ho lasciato consumare solco dopo solco, cambiando luce alla stanza e puntina al braccetto del giradischi. L’ascolto di questo lavoro non può in alcun modo venir raccontato con frasi industriali. Pretende il lisergico pellegrinaggio delle visioni. Ed è quello che ho intenzione di fare.
Ho pensato molto che le strade di quell’America dei beatniks fossero più attuali di quanto lo siano le morali di oggi. Ho l’impressione che certi dischi facciano la vita più dolce e che certi suoni abbiano più verità di quante se ne trovino dentro un telegiornale.
Simone Romei ha la faccia di una montagna e lo sguardo che sembra venire dai boschi, di conifere o di faggi non importa granché, basta che ci sia legna da riportare in casa. Ma non è un’anima del passato. Simone Romei è figlio di questo futuro. Ha quell’aspetto delle caverne che accompagna al sapore delle metropolitane, ha l’ambizione umile di chi pensa al suono e non al vestito, di chi cerca di non perdere i treni ma non ha mai ricorso un solo capostazione in vita sua. Lui probabilmente la televisione non l’ha neanche mai vista. Si fa chiamare Des Moines e trovo che questo sia uno degli ascolti più sani, veri ed umani che ho portato in casa mia da forse un anno a questa parte - ovviamente parlo di musica nuova. Che alla musica oggi si chiede solo di apparire bella e confezionata per lo spettacolo veloce dei media. Des Moines con questo “Like Freshly Moon Grass” ricama a mano come un artigiano canzoni intime di un fingerpicking che hanno il taglio di un americano, che hanno il colore di qualche antico rudere di legno. E poi questi solchi di vinile suonano davvero bene e, nel calore del caminetto che ho acceso contro la neve che cade da qualche giorno, sembra davvero complice dei giochi di luce che riverberano nella mia stanza.
Des Moines non cerca l’organza di chissà quali strumenti e di chissà quali arrangiamenti. Lui pretende l’essenziale. E qui non posso che rimettermi alle parole di Antoine de Saint-Exupéry quando rende eterna la verità dicendo che l’essenziale è invisibile agli occhi. Questo disco lo vedo benissimo e il suo essere essenziale è definitivo e tangibile. Irreversibile. Probabilmente totalizzante. Un disco di piccolo folk antico, dove non sono mai invasive e anzi le avverto trasparenti le organze figlie di questo futuro digitale, qualche fotografia strumentale in salsa fingerstyle e pochissimi sparuti omaggi a suoni che provengono dai territori che sembrano indiani. Sapori buoni da chi si fa chiamare Des Moines. Un bel disco davvero…
Partiamo da Kerouac. Torniamo on the road e dicci perché lui, perché quel romanzo e perché proprio a Des Moines…
Ho letto il libro di Kerouac due volte: la prima da giovane, quando iniziai a suonare il basso elettrico con la mia prima band; la seconda pochi anni fa, quando decisi di iniziare a scrivere canzoni e a suonare la chitarra acustica. La seconda volta, rimasi particolarmente colpito da questo passo: “Des Moines è piena di rotaie – e andai a finire in una vecchia locanda tristissima delle praterie vicino al deposito delle locomotive, e passai una giornata intera a dormire in un grande letto bianco, duro e pulito, con scritte oscene incise nella parete accanto al cuscino e serrande gialle e malconce tirate giù sullo scenario fumoso dello scalo ferroviario. Mi svegliai che il sole stava diventando rosso; e quello fu l'unico preciso istante della mia vita, il più assurdo, in cui dimenticai chi ero, lontano da casa, stanco e stordito per il viaggio, in una povera stanza d'albergo che non avevo mai visto, col sibilo del vapore fuori, lo scricchiolio del legno vecchio degli impianti, i passi al piano di sopra e altri rumori tristi – e guardai il soffitto alto e screpolato e davvero non riuscii a ricordare chi ero per almeno quindi assurdi secondi. Non avevo paura; ero semplicemente qualcun altro, uno sconosciuto, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Ero a metà strada fra una costa e l'altra dell'America, al confine tra l'Est della mia giovinezza e il West del mio futuro, e forse è per questo che accadde proprio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso.”
E dal fatto che “Moines” fosse l’anagramma di Simone.
Ho davvero consumato questo vinile che quasi adesso (dopo ore e ore di ascolto) suona peggio di quelli vecchi. Non solo il suono ma anche la scrittura dei brani così come le composizioni strumentali mi restituiscono un senso di sospensione, di interdizione. Come a non saper chi siamo e dove ci si trovi. Come quando Kerouac era a Des Moines, come quando arriva l’autunno, quello di oggi, quello che non sai più che stagione è. Che mi rispondi?
Ti rispondo che hai colto le mie intenzioni! Premesso che per me questo è un disco estivo, la mia intenzione era quella di catturare in musica il lato oscuro dell’estate, il suo lato malinconico, per così dire. Quella sensazione che nasce dal tormento e dall’inquietudine che non trovano modo di essere espressi nel calore e nella luce dell’estate.
Ed ecco una curiosità più terrena. Perché canzoni assieme a brani strumentali? Perché questo binomio che sulle prime stride di un nonsenso poco qualificabile?
Credo che questa scelta rispecchi appieno le mie grandi passioni: con le dovute differenze, da un lato i cosiddetti guitar solo di scuola Takoma (John Fahey, Robbie Basho) e dall’altro il folk degli anni ’60 inglese e americano (Nick Drake, Bert Jansch, Jackson C. Frank).
Eppure sei di Reggio Emilia. Eppure la tua non è una provincia che immaginiamo ai bordi del rumore, anzi… eppure non sei in Canada e non sei in giro per il mondo. Come nasce questa musica che da Neil Young sarebbe naturale e da Nick Drake sarebbe ovvia?
Penso nasca principalmente dai miei ascolti. Sono cresciuto in una famiglia dove si ascoltava molta musica americana e inglese. Credo che la provenienza geografica sia importante per quanto riguarda l’attitudine a un certo sound, però mi piace pensare a una cosa che un mio amico mi ha detto un po’ di tempo fa, dopo aver ascoltato il disco: “Ascoltandolo, si sente che hai scelto la tua tradizione, da approfondire e a cui rifarti.”
Hai ridotto al minimo l’impatto umano, gli strumenti e le partecipazioni. In brani del passato come “Twenty Years” quasi quasi il folk sapeva di pop. Oggi invece al tuo fingerpicking si aggiunge poco o niente. Perché?
Perché non mi piace avere a che fare con troppe persone tutte in una volta. Tant’è vero che di solito, dal vivo, suono al massimo in duo, con Marco Parmiggiani, grande musicista e amico, che mi accompagna alla pedal steel guitar o con la mia compagna Veronica Caselli, che suona in alcuni pezzi lo shruti box.
Il disco è nato in completa solitudine. Avevo però necessità di far ascoltare a qualcuno le mie nuove canzoni. Tramite Olivier Manchion (Ulan Bator, Permanend Fatal Error) e la sua rassegna di concerti Red Noise, avevo conosciuto Egle Sommacal un po’ di tempo prima e, grazie all’intuizione di Gabriele Marzi dei Dolpo, ho deciso di contattarlo per fargli ascoltare le mie nuove composizioni. La storia è andata così: in quel periodo Gabriele era a fare un viaggio tra India e Tibet, per approfondire alcuni aspetti di quella cultura e cercare ispirazione per il nuovo disco della sua band. Un giorno, di punto in bianco, mi arriva un suo messaggio che diceva più o meno così: “Secondo me dovresti contattare Egle per la tua musica.” (Premetto che è da quando sono ragazzo che considero Egle uno dei più talentuosi musicisti di sempre). Il fatto di contattarlo per la mia musica mi sembrava una cosa davvero assurda, talmente assurda che l’ho fatta immediatamente! Nel leggere questo però, non vorrei che si pensasse che io sia un tipo sopra le righe che prende decisioni avventate, perché non è così. Credo nell’umanità piuttosto che nelle trame oscure del destino. Resta il fatto che le cose, quella volta, hanno iniziato a muoversi quasi indipendentemente da me e, come fosse un sogno, Egle ha deciso così di aiutarmi nel definire l’ambiente sonoro in cui immergere le mie canzoni, componendo arrangiamenti a mio avviso di incantevole bellezza.
Il futuro. Oggi tutti rincorrono l’elettronica, i dischi acustici non esistono più e la musica neanche si suona ma si programma. Anche alcuni giovani scrittori di folk come Fitzsimmons o La Montagne si sono arresi all’elettronica. Tu forse il futuro (inteso come estetica più che come semplice elettronica) lo saluti da lontano con la mano. “Daffodils” sembra (e dico sembra) essere una timidissima prova di questo disco che al futuro non rinunci ma sempre con doverosa (e tanta) distanza. Rispetto, inadeguatezza o repulsione?
Il futuro è un concetto che poco mi interessa. Sono interessato al presente e all’aspetto “archeologico” della musica.
È bellissimo questo vinile. Partiamo dalla copertina: l’uomo sull’albero è un uomo di fantasia, una metafora della vita che vorresti o una fotografia di vita vissuta? Viene da cercare il significato ovunque…
Continua a cercarlo! Mi piace che questa foto, che amo profondamente, resti misteriosa. L’unica cosa che mi sento di dire, visto che diverse persone me l’hanno domandato, è che si tratta di una foto autentica degli anni ’60 e non di un fotomontaggio.
E questo suono che di nuovo porta la firma di Andrea Rovacchi. Avete inseguito l’Inghilterra più che l’America, sbaglio? Perché? Qual è la radice di queste scelte?
Credo che ad Andrea Rovacchi, che come sempre ha fatto un magnifico lavoro, interessi ben poco pensare all’America o all’Inghilterra. Non era la prima volta che lavoravamo insieme e ammiro molto il suo contributo non solo tecnico, ma soprattutto libero e creativo, in fase di registrazione. Detto questo, il principale artefice del sound del disco è Egle Sommacal; la produzione e i meravigliosi arrangiamenti di archi - suonati egregiamente da Emanuele Reverberi e Samuele Riva - e mandolini sono opera sua. In fase di preparazione, quello a cui abbiamo pensato con Egle era legato alla volontà di fare un disco completamente acustico; nella sua realizzazione infatti non è stato utilizzato alcuno strumento elettrico. Da parte di Egle c’era la voglia di scrivere alcuni arrangiamenti per archi. Il primo ad essere stato composto è il quartetto di “Afternoon Sun”, mentre in un secondo momento è arrivata la sua intuizione di arrangiare “Daffodils” - forse il pezzo più complesso del disco - utilizzando violino e violoncello con sfumature indiane. Come naturale conseguenza di questo spostamento verso oriente ho deciso di coinvolgere il mio amico Mali Yea, anche lui membro dei succitati Dolpo, che ha contribuito ad amplificare l’influenza indiana con droni di tampura e shruti box. Con il senno di poi, mi verrebbe da dire che da scelte inizialmente più riconducibili a un sound legato a Nick Drake, per esempio, Egle è passato a trovare soluzioni a mio avviso piuttosto originali (mi riferisco in particolar modo a “Happy Smiles”) utilizzando uno strumento profondamente legato alla tradizione sia americana che italiana: il mandolino.
Chiudo. Promesso. E chiudo sempre con domande marzulliane. Perché le foglie appena tagliate? Questo disco sa invece di foglie appena cadute…
Stavo cercando un titolo per il disco e con la mia compagna si parlava di cosa ci portasse alla mente l’estate, ad un certo punto lei dice: “gli sfalci freschi di erba appena tagliata”. Questa espressione si è fissata nella mia mente per giorni; ho sempre trovato quel profumo molto evocativo e allo stesso tempo sia dolce che inspiegabilmente inquietante. Cercando qualcosa in merito a quella particolare fragranza, nei giorni successivi, credo di aver letto che l’odore dell’erba appena tagliata, a causa di una sostanza analoga rilasciata nell’aria, sia in parte simile a quello dei cadaveri. A quel punto avevo nello stesso titolo due riferimenti davvero calzanti: da una parte quello più esplicito all’estate e dall’altra quello più occulto, ora svelato, alla morte. Non desideravo niente di meglio!