La medietà si annida nelle piattaforme? Questione molto attuale già dibattuta da più parti e che in maniera ciclica torna a riproporsi nello spettatore dall'animo critico a seguito della visione di opere più o meno recenti, nella fattispecie questo L'apparenza delle cose. Fughiamo subito ogni dubbio, il film di Springer Berman e Pulcini (sposati tra di loro nella vita reale) non è male, lo si guarda con piacere, nulla di nuovo da dire, nessun picco ma anche diversi passaggi che catturano l'interesse, film ben confezionato, a conti fatti si passa piacevolmente una serata senza rimpiangere il tempo dedicato alla visione.
Il problema sta (o potrebbe stare, a seconda del giudizio di ognuno) in quel non è male, giudizio che sembra sempre più adattarsi a molti dei prodotti reperibili sulle varie piattaforme, senza generalizzare perché anche queste sono differenti l'una dall'altra e con alterna qualità a seconda delle sezioni esplorate in ognuna di esse. Almeno per chi scrive il pensiero corre subito a Netflix che sembra essere il maggior veicolo per una pletora di prodotti medi che rischiano di uniformare un poco il gusto dello spettatore meno attento e meno curioso, con conseguenza l'aumento di prodotti della stessa fattura che la piattaforma consiglia, propone e promuove e che lo spettatore di cui sopra rischia di continuare a guardare, dedicandosi meno a opere di maggior valore, aiutato in questo anche da una proposta spropositata per quantità all'interno della quale diventa difficile orientarsi con il rischio di perdere ore solamente per scegliere quale film (mediocre) guardare dopo cena. Il problema è la piattaforma quindi o lo spettatore? Il rischio è davvero che la qualità media del cinema contemporaneo si abbassi guardando alla platea più vasta possibile o semplicemente basterebbe saper cercare meglio? È facile che la verità stia come spesso accade nel mezzo, ciò che effettivamente potrebbe andare a perdersi è proprio lo spirito critico diffuso che rischierebbe di relegare opere meritorie che già oggi non sono magari campioni di incassi ai margini dell'industria cinematografica. L'invito per tutti è quello di provare a variare; detto che è impossibile avere un abbonamento a tutte le piattaforme esistenti, già alcune delle maggiori che in molti hanno a disposizione (Netflix, Prime Video, Raiplay che è gratuita) propongono approcci diversi al cinema: se Netflix è probabilmente imbattibile sulla serialità, offre invece un catalogo cinema non così esaltante incorrendo spesso, soprattutto per gli autoprodotti (tranne i casi d'autore, vedi The Irishman di Scorsese ad esempio), nei problemi di cui sopra; Prime offre invece un catalogo più eterogeneo, anche qui sugli autoprodotti può valere lo stesso discorso di cui sopra ma le possibilità di trovare ottime opere sembra decisamente più alta, ogni tanto guardare al passato apre la mente e lo spirito (critico), da questo punto di vista la scelta qui è quasi infinita, pecca invece su diversi film per qualità video; altre perle le si può trovare gratuitamente anche su Raiplay, non si finirà mai di lodare la sezione Fuori Orario ma anche tra i film più mainstream si trovano ottime opere. Poi per chi vuole andare sui film d'autore ci sono i vari Mubi, il Fareastsream, IWonderfull, sono piattaforme queste più di nicchia delle quali gli appassionati duri e puri saranno già a conoscenza.
Così L'apparenza delle cose (Things heard & seen, più bello) è diventato il pretesto per fare due chiacchiere sullo streaming per il quale bisogna anche spezzare una lancia a favore in quanto ci permette di reperire molte cose interessanti, purtroppo con ancora dei limiti, sarebbe utile una piattaforma gratuita per tutte quelle opere che non hanno mercato e non muovono soldi che però gli appassionati vorrebbero vedere, recuperare; se fino a qualche tempo fa per vie alternative questo materiale era reperibile, ora con l'avvento delle piattaforme e il seguente blocco sistematico dello scambio culturale libero (anche quello che appunto danno economico non può arrecare) il rischio è quello di perdere davvero molto: film di nicchia, film storici, importanti se non sempre bellissimi (ma spesso sì), sostituiti da prodotti moderni che nulla aggiungono e poco contano nel complesso della meravigliosa arte cinematografica.
Ma spendiamole due parole su questo L'apparenza delle cose di Berman e Pulcini dei quali consiglio vivamente il recupero di American Splendor del 2003 (all'apparenza non disponibile su nessuna piattaforma). Il film è un thriller psicologico dai risvolti sovrannaturali (etichettarlo come horror mi sembra un po' troppo) che gode di una buona prima parte riuscendo a catturare l'attenzione dello spettatore, gli sviluppi cadono purtroppo nel già visto (e non ci sarebbe nulla di male) sprecando però nella seconda parte del film ciò che di buono si era costruito nella prima, cadendo un po' alla volta nell'ovvio senza riuscire purtroppo a emozionare, spaventare o a costruire qualcosa che a fine visione valga davvero la pena di essere ricordato. Siamo nei primi anni 80, coppia newyorkese con figlia ancora piccola, George (James Norton) è un giovane professore universitario che ottiene una cattedra per insegnare arte in un college a nord, la moglie Catherine (Amanda Seyfried) è una restauratrice d'arte con un accentuato disturbo alimentare. Quando George inizia ad insegnare la famiglia dovrà trasferirsi, Catherine perde così lavoro, amicizie e punti di riferimento rimanendo sola tutto il giorno con la piccola Franny (Ana Sophia Heger) nella vecchia casa che la coppia ha comprato, ovviamente questa si rivelerà infestata da presenze che spaventeranno prima la piccola bambina e poi Catherine. La gente del posto però ha un approccio un po' più benevolo al soprannaturale, proprio tra i colleghi di George la giovane Catherine troverà degli alleati per capire cosa sia successo in passato nella vecchia casa mentre il marito diverrà sempre più distante e farà emergere un lato della sua personalità finora tenuto ben nascosto finanche alla moglie.
L'apparenza delle cose gode di una buona costruzione nell'incipit, le basi sono gettate in modo da catturare l'attenzione che solo nel corso del film va a scemare a causa di uno sviluppo banale, dietro l'allure che richiama il gotico, tutto sommato intrigante, il film si stempera in una sequela di soluzioni risapute che non hanno la giusta forza per ergersi a simbolo del vero male che sta dentro la casa, quello del disfacimento del rapporto tra marito e moglie i cui primi sintomi erano inconsapevolmente avvertiti da Catherine già a New York e che vede la donna vittima dei comportamenti sempre meno onesti e urbani del marito. Il resto è contorno, tutto sommato ben confezionato, ci sono Murray Abraham (il Salieri di Amadeus) e per i più giovani Natalia Dyer direttamente da Stranger Things, la Seyfried è molto brava e gestisce bene il ruolo di madre in bilico tra terrore e voglia di vivere, anche Norton fa il suo pur senza brillare, tutto scorre senza sussulti ma senza nemmeno annoiare, tipico prodotto medio di Netflix si potrebbe chiosare. E quindi? visto questo, il celebre algoritmo cosa ci proporrà domani?
PS: le riflessioni di cui sopra non vogliono essere un attacco a Netflix, tutt'altro, piattaforma grazie alla quale abbiamo potuto ammirare cose come The Irishman, l'ultimo Sorrentino, etc.. (oltre l'ottimo catalogo seriale, ma qui premeva parlare di film), piuttosto un invito a differenziare, a scoprire visioni altre, viaggiare tra passato e presente, tra Europa, Stati Uniti, Asia, Americhe e oltre e non fermarsi al "caro utente visto che hai guardato A ti consigliamo B", che qui l'alfabeto può essere composto da ben più di una ventina di lettere.