Adam Lanza ha vent’anni, e vive con la madre a Newport, in Connecticut. Durante l’infanzia ha avuto disturbi psichiatrici, ma è sempre apparso come un ragazzo tranquillo, nonostante una certa propensione alla solitudine. Negli ultimi tempi, però, qualcosa è cambiato: Adam vive in un volontario isolamento, si rifiuta di vedere chiunque, mangia pochissimo, ha oscurato le finestre della camera con dei sacchi della spazzatura, ha interrotto i contatti con il padre e il fratello, che vivono altrove, e dialoga con la madre convivente solo via mail. Quest’ultima, è una patita delle armi, ne possiede in gran quantità e ha insegnato ad Adam, fin da piccolo, ad usarle in un poligono di tiro vicino a casa.
La mattina del 14 dicembre del 2012, Adam si sveglia, prende una pistola dall’arsenale materno, si reca in camera del genitore e le esplode quattro proiettili in faccia. Poi, prende l’auto, un fucile e un’altra pistola, e si dirige verso Sandy Hook Elementary School, situata a otto chilometri da casa sua. Qui, preso da furore belluino, inizia a far fuoco all’impazzata, uccidendo ventisette persone, venti delle quali bambini di un’età compresa fra i sei e i sette anni. Prima dell’arrivo della polizia, rivolge la pistola verso di sé e si toglie la vita.
Quello di Sandy Hook passa alla storia come uno dei più gravi massacri scolastici accaduti negli States. Non il solo, purtroppo, e non l’ultimo. Un fatto di cronaca agghiacciante, terribile, che induce Brandon Flowers, leader della band americana di rock alternativo The Killers, a profonde riflessioni sul paese in cui vive e all’idea di scriverci una canzone, che sia di denuncia aperta verso un sistema che non funziona più e, forse, non ha mai funzionato. L’idea, che continua però a frullare nella testa del cantante, viene accantonata per cinque anni, per poi tornare prepotente nel 2017, quando la situazione politica statunitense ha una svolta improvvisa, ed esiziale, con l’elezione di Donald Trump a Presidente. Questo evento spinge Flowers a riprendere quei ragionamenti, a mettere in musica liriche che mettano il dito nella piaga delle armi, come abbrivio per parlare anche di diseguaglianza sociale, dell’ingiustizia razziale e della crisi al confine col Messico.
La canzone, che prende il titolo di Land Of The Free, viene portata a compimento a fine 2018 nei Battle Born Studios di Las Vegas, con Jacknife Lee alla produzione e Lynn Mabry, Dorian Holley, Will Wheaton, Sherree Patrice Brown e Akasha Mabry ai cori gospel, e quindi pubblicata come singolo a gennaio 2019.
C’è una profonda tristezza nelle liriche del brano: parole amare che raccontano la condizione degli immigrati in un paese che dovrebbe essere la terra della libertà e delle opportunità e che invece è sempre più simile a un campo santo, nel quale vengono seppelliti i martiri di un’ingiustificata discriminazione.
La narrazione è in soggettiva, in prima persona, in modo da facilitare l’immedesimazione di chi ascolta:
“…Siamo solo io e il mio vecchio
Che laviamo il suo camioncino alla stazione di servizio Sinclair
Nella terrà della libertà
La famiglia di sua madre, Adeline, è arrivata in nave
Ha spaccato il carbone e ha piantato un seme
Nelle tante miniere della Pennsylvania
Nella terra della libertà”
Un’ordinaria storia di immigrazione, il racconto di povera gente che affronta lunghi viaggi alla ricerca della terra dell’abbondanza, dove, però, i sogni s’infrangono sula realtà e resta solo il duro lavoro per la sopravvivenza. Perché vivere in una terra straniera, se sei un miserabile, se il colore della tua pelle e il tuo idioma sono diversi, è uno strazio quotidiano, è una condizione marcata a fuoco dalla paura:
“Sono qui a piangere
Quando esco in macchina…
Ma se hai la pelle del colore sbagliato…
Cresci guardandoti sempre alle spalle
Nella terra della libertà “
Perché la fuori, se sei nero o messicano, basta uno sguardo sbagliato, una sciocchezza, un nonnulla, perché ti mettano le manette ai polsi e ti portino via, lontano da quel poco di caro ancora ti è rimasto:
“Abbiamo più persone incarcerate
Del resto del mondo
Proprio qui tra il rosso, bianco e blu
Sono qui a piangere
Gli arresti sono diventati un grande affare
È periodo di grande raccolta per le strade”
Tornano, poi, prepotentemente alla memoria l’incubo di Sandy Hook e i suoi non più differibili interrogativi su un Paese in cui tutti posso comprare armi e usarle per uccidere indiscriminatamente, perfino i bambini:
“Allora, quante figlie?
Ditemi quanti figli?
Dobbiamo sotterrare
Prima di cedere e affrontare la situazione?
Abbiamo un problema con le pistole”
Nel finale, il dito viene puntato contro le politiche razziste di Trump e la mano tesa verso un popolo, quello messicano, che cerca negli Stati Uniti un’opportunità di riscatto e la speranza di una vita migliore.
“E giù al confine
Costruiranno un muro
Di cemento armato
Sono qui a piangere
Alto abbastanza da tenere lontane tutte quelle sporche mani
Dai nostri sogni e dalle nostre speranze
Sono qui a piangere
Persone che vogliono soltanto le stesse cose che vogliamo noi”
Per il video da accompagnare alla canzone, Flowers, dopo aver visto BlacKkKlansman, telefonò personalmente a Spike Lee, convinto che il regista fosse l’unico in grado di poter dare un senso a liriche tanto impegnate. Il cineasta accettò di buon grado e mandò una troupe, capitanata dal direttore della fotografia Felipe Vara De Rey, a Tijuana, per filmare i migranti in uno dei campi di accoglienza lì presenti.
L’anno successivo, i Killers rimisero mano alla canzone, modificandone il testo per poterlo adattare alla dolorosa vicenda di George Floyd: “Eight measured minutes and 46 seconds / Another boy in the bag / Another stain on the flag“. Otto minuti e 46 secondi, è il tempo per il quale il poliziotto di Minneapolis, l’agente Derek Chauvin, ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di George Floyd, impedendogli di respirare e causandone così la morte.