Quello che ci si para davanti è un disco per niente minimale ma neanche spocchioso di organze troppo spesso ridondanti. Che il pop oggi, facendo il verso a tante mode internazionali, ne ha di cose ridondanti che potrebbe bellamente evitarsi. Qui invece regna un suono che rende coesi e senza soluzione di continuità la natura acustica e quella digitale mescolandole con mestiere artigiano a creare un impasto unico, lisergico e per niente banale. Anzi, per niente prevedibile, direi anche.
Loro sono Stefania Megale e Francesco Paolino. Si tengono stretti in questa scrittura che come ci spiegheranno ha dentro un che di anarchico per le figure conosciute… ma senza un pretesto rivoluzionario a priori, bensì con il solo scopo di esistere per quello che realmente si è, senza maschere e compromessi di stile. Si chiama Megàle questo duo che non ha appartenenza geografiche ed etichette a cui ricondurli, almeno non di quelle immediate a cui fare subito affidamento. Un esordio dal titolo “Imperfezioni”, come il video della title-track che da solo basta per dimostrare quanto la bellezza può aversi anche attraverso le non-forme: questa danza che mescola i corpi e le geometrie, questa eterna imperfezione che poi è la base della riconoscibilità umana, della sua espressione, della sua fragilità emotiva. Trae in inganno questo suono a cavallo tra il digitale e l’acustico, come trae d’inganno una domanda che seguirà proprio in merito: cosa resti del suono naturale e cosa diviene poi artificioso a seguito di editing e produzione, è un argomento che divide tutti e che apre scenari di confronto interessanti… ma sappiamo che non è questo il luogo deputato a definirne i contorni.
Ci vorrebbero intere pagine di un magazine e forse non basterebbero. Di sicuro “Imperfezioni” dimostra una magistrale visione, lasciata istintiva, celebrata da un suono sagomato ad arte grazie anche alla produzione di Angelo Epifani con accanto la collaborazione di musicisti altrettanto interessanti come Rocco Marchi (Mariposa, Hobocombo), Francesca Baccolini (Hobocombo), Enzo Cimino (Mariposa, Saluti da Saturno) e Simone Cavina (Junkfood, Iosonouncane).
“Imperfezioni” è un disco di sensibilità acute e di sfumature letterarie che osano forse troppo… ed è l’osare che spesso manca nelle perfezioni estetiche di questa scena indie. Che alla fine cosa sia precisamente pop non è cosa per niente scontata.
Quanta dissonante estetica che il saggio cantautore definirebbe in direzione ostinata e contraria. Come mai questa ostinazione “contro” la forma canonica di canzone?
Non ci ostiniamo assolutamente ad andare in direzione contraria. Seguiamo un nostro percorso personale fatto di ascolti che non sono solamente pop. Forse il nostro sentirci disadattati in questo panorama musicale ci porta a sperimentare nuove vie poco battute e quindi piene di rovi.
E se ve lo chiedessi esplicitamente: che forma ha la vostra canzone?
Ogni brano ha una struttura a sé stante. Non abbiamo mai sentito l'esigenza di infilare in una scatola qualcosa che può avere infinite forme e strutture. Per noi è stato naturale rispettare la natura dell'idea come è stata generata per ogni singolo brano.
Alla fine, tutti abbiamo bisogno di orientarci, come tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa. Voi sembrate “vietarci” questa possibilità… sbaglio? Ho forte l’impressione, e mi piace, sappiatelo, che l’idea di base si possa tradurre col dire: sforzati di andare oltre l’estetica di una canzone, ascoltala nuda così com’è, che non serve il bello conosciuto per capirla. Non so se mi sono spiegato…
Non abbiamo mai avuto l'intento dichiarato di creare qualcosa che richiedesse sforzo agli ascoltatori. Anche se al tempo stesso è vero che non abbiamo mirato ad un 'genere' di riferimento per le nostre composizioni. La musica è percezione e magari per un orecchio più allenato i nostri brani risultano più accessibili, per un orecchio medio – calibrato a ciò che oggi circola per la maggiore – possono risultare ostici, ma davvero non era nostra intenzione. L'obiettivo di un musicista è quello di arrivare a più persone possibili ma è importante farlo con dignità.
La moda ha il bello di creare un forte senso di appartenenza ma il limite di rimanere relegata al momento storico in cui si sviluppa.
Tra l’altro il tema è di fondamentale importanza anche per la mia vita personale. La famosa frase “i dettagli fanno la differenza” io la userei anche per questo disco. E più che di differenza parlerei proprio di essenza. Insomma: è nei dettagli, spesso ricchi di umane imperfezioni, che esiste il tutto non è così?
Assolutamente, è così. I dettagli e le imperfezioni sono caratteristiche estremamente singolari e personali. Ne consegue che queste cose creano le differenze che ci rendono esseri dotati di unicità meravigliosa. Ma questa 'unicità' è comune a tutti, dunque parte di un qualcosa di più grande di noi. Non possiamo fare altro che accettare noi e le persone che ci circondano, per poi correre a goderci il meglio. Essere, semplicemente, essere.
E dunque vi chiedo quasi a sfidarvi: ma la perfezione dei suoni digitali non va in contrasto con l’imperfezione dell’uomo che è tutta espressione dell’umana bellezza?
Accogliamo la sfida con estremo piacere: nel nostro disco non sono presenti suoni digitali. Tutto è stato creato con strumenti analogici e con strumenti 'veri' che tramite il processo di sintesi si sono trasformati in qualcos'altro, ad esempio violini, sax, voci e chitarre. Se ti riferisci al fatto di essere entrati in uno studio e registrare brani con molte tracce, sovrapposizioni di strumenti e così via. lo abbiamo fatto per sfruttare al meglio le potenzialità del nostro lavoro. Inoltre, il fine giustifica i mezzi, sarebbe stato decisamente controproducente fare qualcosa non adeguato agli standard di qualità attuali.
A chiudere vorrei una chiave di lettura per il video della title-track. Ne ho proprio tante per interpretarlo… ma proprio tante. Una su tutte: torna il concetto di non avere forme, di averne tante, di averne quasi in modo anarchico. Ognuno vede e segue la forma che più gli somiglia. O forse ognuno segue e vede qualcosa che vorrebbe gli somigliasse…
Entrambe le cose. Lo spettatore può immedesimarsi o può semplicemente prendere le cose per quelle che sono. Abbiamo giocato con il trasferimento del significato in un linguaggio artistico differente proprio per andare a sondare significati simbolici e inconsci. Ciò che abbiamo fatto è stato trasformare il testo in gesto. Questo seguendo annessioni e associazioni elaborate da Stefania assieme alla coreografa. Ne consegue che il lavoro che ne è venuto fuori è qualcosa di estremamente personale ma in questo modo universalmente trasmissibile a chiunque. Un'anarchia di forma che invita fortemente a esprimere sé stessi.