Quando una band con oltre vent’anni di carriera utilizza il proprio monicker come titolo del nuovo album, è chiaro che il messaggio che vuole comunicare è quello di una sorta di Jahr Null, di anno zero, di nuova partenza. È quanto hanno scelto di fare anche i Lamb of God con il loro decimo album, che sancisce il ritorno discografico dopo cinque anni. È lo iato più lungo nella storia della band: nemmeno quando Randy Blythe era stato incarcerato in Repubblica Ceca con l’accusa di omicidio colposo la band di Richmond, Virginia, si era fermata così tanto. Questa volta, però, i Lamb of God, se la sono presa comoda e hanno dato un seguito all’ottimo VII: Sturm und Drang solo quando hanno avuto qualcosa di veramente importante da dire.
A onor del vero, la band non è rimasta inattiva per tutto questo tempo. Due anni fa, per festeggiare il ventennale, i Lamb of God si sono regalati il disco di cover Legion: XX (uscito però sotto il vecchio marchio Burn the Priest) e sono partiti per oltre 18 mesi assieme agli Slayer, impegnati nel loro tour d’addio. Non dimentichiamo inoltre Anesthetic, l’album solista di Mark Morton, uscito nella primavera del 2019, seguito una decina di mesi dopo dall’Ep acustico Ether.
Prima esperienza in studio assieme al nuovo batterista Art Cruz (Winds of Plague, Prong), entrato ufficialmente in formazione al posto di Chris Adler lo scorso luglio, dopo averlo sostituito dal vivo (Adler era rimasto vittima di un serio infortunio dopo una caduta in motocicletta), Lamb of God è una solida conferma. I padri della New Wave of American Heavy Metal, infatti, non arretrano di un millimetro e propongono ai loro fan una ricetta fatta di groove metal moderno dai riff sferraglianti (gli intrecci di chitarra tra Mark Morton e Willie Adler sono una gioia per le orecchie) e atteggiamento senza compromessi, con un Blythe sugli scudi, per la prima volta paroliere unico e mai così espressivo e versatile dietro al microfono.
La prestazione migliore, però, la offre Art Cruz, il nuovo arrivato. Guidato da un entusiasmo contagioso che, a detta dei suoi colleghi, ha reso speciale la lavorazione del disco ed ha evitato le trappole della routine (come invece era successo con gli ultimi album), non solo non fa rimpiangere un fenomeno assoluto come Adler, ma dà alla musica dei Lamb of God un feeling inedito, presentando soluzioni ritmiche estremamente originali. Con Lamb of God, c’è da scommettere, Cruz si candida a diventare uno dei batteristi più talentuosi della sua generazione, come e più di Jay Weinberg degli Slipknot, che come lui ha dovuto prendere il posto di un musicista sulla carta insostituibile come Joey Jordison.
Prodotto dal fidato Josh Wilbur (Trivium, Gojira), al lavoro con la band da più di quindici anni, e registrato a Los Angeles ai 606 Studios di Dave Grohl, Lamb of God poggia senza dubbio sulle basi gettate da VII: Sturm und Drang, un disco nel quale i virginiani si erano spinti molto in avanti dal punto di vista della sperimentazione, ma allo stesso tempo guarda anche indietro, recuperando l’energia e la scrittura di capolavori come As the Palaces Burn, Ashes of the Wake e Sacrament. È proprio questa commistione tra vecchio e nuovo che rende Lamb of God così convincente e, con una band psicologicamente ritrovata, libera di prendersi dei rischi e con lo sguardo rivolto al futuro, tutto è possibile.
Lo testimoniano pezzi come l’opener “Memento Mori”, che inizia con un coro di bambini che sembra preso di peso da “God of Thunder” dei Kiss, prosegue con una intro à la Type O Negative, per poi esplodere in tutta la sua furia. E lo stesso dicasi del primo singolo “Checkmate”, dall’alto tasso politico, oppure di “Gears”, nella quale Randy urla «è questa la nuova anormalità?», con un livello di profeticità che mette i brividi. E se “Poison Dream” si fa ricordare più per il riff devastante in apertura che per l’ospitata di Jamey Jasta degli Hatebreed, di tutt’altro livello è l’intervento di Chuck Billy dei Testament in “Routes”. La traccia è ispirata a un viaggio fatto da Blythe in supporto al movimento NoDAP nella Riserva indiana di Standing Rock, nel North Dakota, per opporsi alla realizzazione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline, che si temeva potesse costituire una minaccia per l’approvvigionamento idrico della locale tribù Sioux, e vede la voce di Randy dialogare con quella di Chuck, scelto non solo perché grande amico della band, ma soprattutto perché di origini indiane Pomo, quindi in grado di fornire una grado di autenticità maggiore alla sua interpretazione. Anche pezzi come “New Colossal Hate”, “Reality Bath” e “Resurection Man” (che sul finale gioca con delle atmosfere à la Meshuggah) non scherzano, così come “Bloodshot Eyes” – un pezzo subdolo come ce ne sono pochi altri nella discografia dei Lamb of God – e “On the Hook”, che chiude il disco con la giusta dose di barbarie.
Insomma, il commiato perfetto per un disco che in dieci pezzi distilla tutte le caratteristiche per le quali la band di Richmond è celebre, ma che allo stesso tempo lascia intravvedere un futuro molto interessante ancora tutto da scrivere. Se Lamb of God è il disco della rinascita, ne vedremo ancora delle belle.