Sarebbe obbligato iniziare a parlare de L’albero delle noci a partire dalla partecipazione del suo autore a Sanremo (la prima della sua carriera) dove ha peraltro ottenuto un insperato e sorprendente terzo posto, risultato che, se accostato al clamoroso piazzamento di Lucio Corsi (secondo per un soffio, non ha vinto per una manciata di voti) autorizza spiragli di ottimismo sulla sorte futura della musica italiana (a mio parere le cose non stanno proprio così ma ci vorrebbe un articolo a parte).
Sarebbe obbligato, appunto. A conti fatti, invece non lo è. Dario Brunori non è uno di quelli che ha utilizzato Sanremo per dare uno slancio alla sua carriera o per proiettarla su dimensioni di grandezza inedite: il salto dai club ai palazzetti lo aveva già fatto nel 2020 con Cip!, dal festival è stato a lungo corteggiato senza risultati e, se si è deciso ora ad andarci, con un tour primaverile sold out quasi ovunque, è stato presumibilmente per togliersi uno sfizio professionale.
Certo, è andato benissimo, le sue esibizioni hanno conquistato gran parte del pubblico che ancora non sapeva chi fosse (sembra incredibile ma ormai ci siamo abituati al fatto che in Italia l’unico modo per essere conosciuto veramente da tutti sia farsi una settimana all’Ariston) ed è lecito attendersi un incremento degli stream e dei dischi venduti. Da ultimo, è positivo il fatto che non si sia fatto fagocitare dalla macchina, presentando un brano che, ne siamo sicuri, avrebbe scritto e pubblicato ugualmente, festival o meno.
E allora quello che c’è veramente in gioco, arrivati a questo punto della storia, è capire se la Brunori Sas sia una realtà ancora artisticamente valida o se si debba per l’ennesima volta rispolverare il luogo comune (il più delle volte veritiero, per altro) secondo cui “Erano meglio quando non erano famosi”.
Per nostra fortuna sembrerebbe ci siano ancora cartucce da sparare. La carriera di Brunori è sempre stata caratterizzata da un andamento altalenante: bellissimi i primi due dischi, già derivativi ma grezzi e spontanei come chi non vede l’ora di spaccare il mondo, bruttarello Il cammino di Santiago in Taxi, fin troppo ingabbiato dalle scelte di produzione di Taketo Gohara; A casa tutto bene combinava ispirazione nella scrittura e bontà degli arrangiamenti, mentre Cip! rappresentò per chi scrive una discesa nel baratro, nonché la conferma di quel che si è già detto: quando un artista raggiunge la dimensione mainstream, spesso e volentieri lo fa con il suo disco peggiore.
L’albero delle noci introduce, per nostra fortuna, un discorso diverso: l’artista calabrese ha atteso cinque anni per dare un seguito al lavoro precedente e senza dubbio questa mancanza di fretta ha giovato nel mettere assieme un lotto di canzoni più consistente che in passato; in secondo luogo, ha chiamato come produttore Riccardo Sinigallia, che ha un modus operandi diverso da Gohara, che è lui stesso autore e arrangiatore di talento (al di là dei suoi dischi solisti, basta vedere cosa ha combinato nell’esordio di Motta, il quale non si è più ripetuto su quei livelli) e che ha portato nuova linfa e nuovi vestiti a canzoni che, come di consueto, non presentano chissà quali sconvolgimenti.
È un Brunori decisamente più ispirato di quello di Cip!, che oltre a dimostrare la consueta maturità nei testi (l’esperienza recente della paternità è a tema nella title track e in “Guardia giurata”, “Per non perdere noi” e “Più acqua che fuoco” sviluppano una riflessione non banale su ciò che tiene assieme due persone dopo tanti anni, “La ghigliottina” parla di woke e politicamente corretto ma lo fa in maniera leggera, senza ditino alzato) sfodera tutto il suo armamentario da cantautore navigato, derivativo senza dubbio, ma perfettamente capace di scrivere canzoni che restino nella memoria collettiva.
Il brano sanremese, da questo punto di vista, è un ottimo esempio di una leggerezza che si fa disincanto, melodie forse un po’ troppo debitrici al De Gregori più classico, ma una musicalità intensa che arriva dove deve arrivare, pur rimanendo inteso che le sue cose migliori stanno da altre parti.
La cura Sinigallia è avvertibile soprattutto su “Per non perdere noi” e “La vita com’è”, due ottime ballate che senza l’equilibrio da lui dato negli arrangiamenti sarebbero state molto meno interessanti. È però importante sottolineare come il meglio di sé Dario lo dia ancora una volta quando accelera i ritmi e costruisce brani di intensità vibrante, riempiendo i suoni e giocando molto sulle dinamiche: “Il morso di Tyson” è perfetta in questo senso, “La ghigliottina” trascina e diverte senza frivolezza, “Più acqua che fuoco” è una tirata quasi monocorde con tappeto di sax, che contiene più di una reminiscenza al Battiato degli anni Duemila.
Peccato per l’inserimento di due episodi in stile Folk popolare (“Pomeriggi catastrofici” e “Fin’ara luna”) che danno l’impressione di essere poco meno che standard, divertenti ma non troppo significativi. E il finale, con il toccante minimalismo di “Guardia giurata” e la preghiera malinconica di “Luna nera”, è gradevole ma non in grado di svettare.
L’impressione è che con il suo sesto album, la Brunori Sas abbia operato un’importante correzione di rotta, ma che ritornare ai livelli degli esordi sia praticamente impossibile. Resta la soddisfazione per un artista che, tra alti e bassi, è ancora in grado di portare avanti la formula del cantautorato classico, avvicinandosi oltretutto alle platee più giovani. Troppo poco, dirà forse qualcuno, ma i tempi sono questi e occorre non lamentarsi troppo.