“Tornai da Nora e Toni che mi stavano aspettando per cenare insieme. In quel momento non ero granché interessato alla cena, né al rientro a casa e neppure a mia moglie e mia figlia. Forse mi ero già un po’ innamorato di Jessie Burdette."
Tutte le volte che mi ritrovo tra le mani un romanzo di Kent Haruf (Pueblo, Colorado 1943 – Salida, Colorado 2014), mi sento allo stesso tempo eccitata e impaziente all’idea di immergermi nelle sue storie e nel suo modo di scrivere asciutto ma allo stesso tempo profondo e potente. Non butta mai via le parole, le sceglie con cura, mette in riga solo quelle che servono, in modo efficace ed essenziale.
Per non parlare del suo modo personalissimo di usare la punteggiatura, di quei tempi che sono i suoi, ma che diventano inevitabilmente anche miei, perché mentre leggo, mi capita spesso di “inserire” delle virgole lì dove non ce ne sono, di infilare nei suoi pensieri delle pause, di dare all’andamento del suo racconto una cadenza tutta mia. Così accade che le parole sono le sue, certo, ma la musica che ne viene fuori è la mia e lui sembra dirmi: “Dai, leggi come ti pare, asseconda il tuo bisogno, la tua urgenza”. E io lo faccio, perché lui, con le sue parole, tiene sempre il ritmo del mio cuore, come se mi conoscesse.
Fatto sta che ogni libro di Haruf crea in me una grandissima aspettativa, perché so già che arriverà quel momento della narrazione in cui, quasi senza rendermene conto, mi ritroverò innamorata persa di qualcosa o qualcuno e sarò lì a fare il tifo, a sperare, gioire o soffrire con - e per - i suoi personaggi.
Personaggi in cui, il più delle volte, è facile immedesimarsi e ritrovare parti più o meno grandi di sé stessi. Sono donne e uomini “reali”, che si muovono nelle proprie vite per come possono, affrontando tutto ciò che arriva come fanno le persone “normali”, quelle che non hanno santi in paradiso, e che - esattamente come accade nella vita di tutti i giorni – si ritrovano ad arrancare, a subire ingiustizie, a vivere piccoli momenti di felicità o a dover fare i conti con dolori più o meno grandi, disavventure, imprevisti e amori difficili o impossibili.
Haruf racconta la vita, quella vera, nuda e cruda, senza colpi di scena eclatanti, senza finali lieti forzati o ricatti emotivi volti ad ottenere il consenso del lettore, perché Haruf è uno di noi e sa che la vita raramente premia chi se lo merita, nonostante la tenacia e l’ostinazione.
Con “La strada di casa” – che in ordine cronologico è il suo secondo romanzo, ma l’ultimo pubblicato in Italia – ritorniamo nella contea di Holt, in Colorado. In questo luogo inventato, che non esiste su nessuna mappa, ma che vive, e vivrà per sempre, nell’immaginario di tutti i suoi lettori. Perché Holt è un po’ la casa di tutti noi e ci appartiene, così come ci appartengono i suoi personaggi.
“Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui.”
La voce narrante è quella di Pat Arbulckle - direttore del quotidiano locale, l’Holt Mercury - che, attraverso i suoi ricordi, in un intreccio continuo tra passato e presente, ci svelerà pian piano, pagina dopo pagina, perché Jack Burdette, da un giorno all’altro, sia fuggito da Holt, lasciandosi alle spalle tutta la sua vita, una moglie, due figli piccoli e un terzo in arrivo, attirando su sé stesso l’odio e l’ira dell’intera comunità.
Pat descrive Jack in modo minuzioso. Dalle sue parole appare chiaro che un tempo aveva provato affetto e anche una certa ammirazione per questo ragazzone scarso a scuola ma “impareggiabile, incredibile, brutale” sul campo da football. Un ragazzone sopra le righe, testa calda, di indole buona, generoso, forse anche un po’ “ingenuo”. Un tipo decisamente carismatico e affascinante, insomma. Di quelli che si ritrovano spesso al centro della scena e da cui tutti si aspettano sempre qualcosa di eclatante.
Ci parlerà anche di Wanda Jo Evans, la ragazza di Jack da sempre, che lo amava “persino più di quanto lui non amasse sé stesso”. Era molto bella Wanda Jo e tutti gli amici di Jack, Pat compreso, erano “decisamente innamorati di lei”. Una fidanzata accudente, una donna un po’ mamma, che si prendeva cura del suo uomo-bambino in tutti i modi possibili, senza pretendere nulla in cambio, coltivando solo la speranza che un giorno lui si decidesse a sposarla: “Era disposta ad aspettare anni […] Non aveva altre aspettative. Jack Burdette era la somma di tutto ciò che lei si augurava nella vita. Una volta me lo confidò.”
Ci farà conoscere Jessie Miller, personaggio straordinario di questa storia, che per certi versi mi ha ricordato molto Addie Moore, la meravigliosa protagonista de “Le nostre anime di notte”, altro romanzo straordinario di Haruf (Qui su Loudd trovate la recensione).
Jessie ha appena vent’anni quando incontra Jack Burdette a Tulsa, durante un viaggio di lavoro. In una manciata di ore si lascerà sedurre da quest’uomo più grande di lei di 10 anni, che sembrava sapere già tutto della vita. Diventerà sua moglie due giorni dopo averlo conosciuto e quando farà la sua prima apparizione a Holt come Jessie Burdette, tutti gli abitanti della comunità resteranno a bocca aperta: “A Holt tutti rimasero sorpresi e sbalorditi. Ma per Wanda Jo Evans fu ben più di questo. Fu uno shock quasi letale.”
Una donna decisamente attraente Jessie, seppur non in modo convenzionale, cordiale, ma allo stesso tempo schiva e solitaria. A lei non interessava coltivare rapporti di buon vicinato, integrarsi o partecipare alla vita sociale di Holt. Preferiva vivere in disparte, ai margini di quella piccola comunità fatta di 3000 anime – in cui tutti sanno tutto di tutti - e dedicarsi alla cura della sua famiglia.
Però, il giorno in cui suo marito Jack Burdette sparisce, tutto cambia e lei si ritrova, suo malgrado, al centro dell’attenzione dell’intera comunità che comincia a guardarla con occhi diffidenti e ostili. C’era chi era convinto che lei sapesse, che lei fosse complice, e che, rea o meno, dovesse pagare per le colpe del marito, che dovesse farsene carico.
E così Jessie Burdette, nonostante la sua totale estraneità ai fatti, nonostante il suo essere vittima come o forse, più degli altri, sentiva su sé stessa tutto il peso e la responsabilità delle azioni di suo marito; di quell’uomo senza scrupoli che oltre a essersi macchiato di una colpa gravissima, aveva abbandonato lei e i suoi figli senza il minimo rimorso. Lei voleva “pagare”, voleva trovare il modo di sdebitarsi con l’intera comunità per tornare a vivere e sentirsi finalmente libera o perlomeno provarci. Libera dagli sguardi, dalle illazioni, dall’odio e dal rancore.
Jessie Burdette voleva “pagare” e lo ha fatto, eccome se lo ha fatto: “Io non so che valore monetario attribuiscono alle bambine dalle altre parti, ma nel maggio di quell’anno scoprimmo che qui centocinquantamila dollari – meno il valore della casa con due camere da letto in centro città – sembravano un importo più che appropriato.”
Passano i mesi, gli anni, e la vita, a Holt, ricomincia a scorrere.
Pat Arbulckle, intanto, continua con la narrazione degli eventi, ci racconterà anche di sé stesso, della sua vita, del suo sentire e di come, ad un certo punto, si legherà a Jessie Burdette: “Furono un autunno e un inverno meravigliosi. Non ero più solo e secondo me fu un bel periodo anche per Jessie. Dopo quella sera iniziammo a vederci quasi ogni giorno.”
Ma dopo 8 anni, quando tutti ormai sembravano essersi dimenticati di lui, come se nulla fosse successo e con un atteggiamento di sfida, Jack Burdette fa ritorno a Holt, a bordo della sua Cadillac rossa, “dello stesso colore di una ferita aperta, per dire, o del rossetto sulle labbra di una donna il sabato sera”.
Che cos’è tornato a fare? Pagherà per quel che ha fatto? Si assumerà le sue responsabilità? Verrà fatta finalmente giustizia? E la giustizia, intesa non solo come valore o virtù morale, ma anche come quell’insieme di leggi che dovrebbero tutelare e proteggere la collettività, esiste davvero o in alcuni casi è solo un’utopia? E cosa ne sarà di Pat e Jessie?
Per ovvie ragioni non vi racconterò altro, perché non voglio rovinarvi il piacere di scoprire da soli quali siano le colpe di Burdette, così come gli altri risvolti di questa storia che, a dispetto della sua linearità, somiglia tanto a un fiume in piena ricco di affluenti che, alla fine della sua corsa, si tuffa in mare portando con sé tutto ciò che ha raccolto lungo il suo cammino.
Posso dirvi, però, che “La strada di casa”, esattamente come tutti gli altri romanzi di Haruf, si divora e che, una volta finito, vi farà provare una certa nostalgia per Holt e per tutti, ma proprio tutti i protagonisti delle sue storie che, per un motivo o per l’altro, sono riusciti a conquistarsi un posto speciale nel nostro cuore.