Lungo i tanti ascolti di questo disco penso di aver perduto la direzione del porto da cui ero partito. E capita raramente di perdersi. Perdersi significa aver lasciato al viaggio libertà di direzioni sconosciute. Restare a portata di orientamento, poter tornare, significa un poco tener stretta la consapevolezza di chi siamo, di quello che conosciamo e di quello che fino ad oggi ha salvato le nostre sicurezze. Invece Luca Recchia, anche firmato LupMorthy, mi ha portato in un altrove dentro cui mi sono lasciato perdere, e non ho alcuna voglia di tornare al porto di casa mia.
Eppure la forma delle cose, par esser sempre quella se l’osservo nella sua scheletrica dimensione primigenia. Requiem for a Tree mi è giunto sottovoce nel caos delle tantissime proposte e sempre grazie a persone come Paolo Naselli Flores di Unomundo, che attento lascia darmi la possibilità di accendere il mio piccolo lume su dischi importanti come questo. Per quel che conta il mio piccolo lume.
Requiem for a Tree è un vinile che si dipana dentro 5 movimenti, 5 tracce, 5 composizioni strumentali. Chiamatele come volete. Ma dopo averle etichettate, siete ampiamente pregati di abbandonare ogni schema e concedervi il lusso dello smarrimento - qui inteso come ricchezza di altro, privilegio della vicinanza al diverso. Una preghiera laica alla Terra, dentro cui gli alberi rappresentano tutti coloro che combattono, che resistono ma sanno rimanere al proprio posto, suono sospeso, post-atomico, distopico, che al tempo chiede il permesso di violare le regole, che alla forma (persino quella del suono di un pianoforte) dimostra come dal confine e dalle regole possano nascere identità nuove, nuove parole, nuovi significati. Penso a quella meravigliosa quanto violenta abitudine di affidare nomi nuovi alle cose quotidiane, oppure quel coraggio tutto bambino di cercare dentro la vita dei grandi, nuove soluzioni di identità e di personalità.
Requiem for a Tree, dedicato a Federico, un amico di infanzia morto prematuramente, mi lascia il dono dell’Altrove ed io non so bene come spiegarlo altrimenti. Smarrirsi deve significare anche questo. Il suono che è esso stesso forma concreta, mescola ogni cosa per raggiungere (appena) la forma quasi “comune” e polverizzarla, modificarla, violentarla. In fondo resta un rumore di fondo che posso leggere anche come critica ad una società di omologazione e di conformismi. E quel rumore di fondo lo penso anche come quel basso che somiglia ad una cassa (in “Stones”) che mi conduce al suono primigenio della vita stessa. E forse non è un caso che questo brano si ispira a Brian Eno, artista che ho sempre pensato come un ricercatore della sintesi. Spogliato di tutto, resta un rumore di fondo che è vena, che è quanto di vita. Deve bastare questo prima di tutto.
Requiem for a Tree è un piccolo capolavoro concettuale che ascolto ogni volta che posso e che ogni volta sa mostrarmi nuove ragioni e nuove forme da dare alla mia piccola vita di uomo su questa terra. Ragione e forma.
In ultimo, da ufficio e con passione di mestiere, è opportuno farvi sapere che alla creazione di LupMorthy concorre l’omaggio della maestranza di artisti e musici come Enrico Gabrielli, Rodrigo D’Erasmo, Stefano Pilia, Tazio Iacobacci, Martino Pignatta, Giovanni Calella, Paolo Lucchi.
Buon viaggio, buona immersione e felice smarrimento. Che possiamo dimenticarla, la via di casa.
In genere ho delle domande che tengo buone quasi per tutti. Ma penso che in questo disco, chiederti del tempo sia davvero un punto cardine di tutto. Che rapporto hai con il tempo?
Buongiorno a te, ai tuoi lettori, e grazie per avere ospitato me e la mia musica. Il mio rapporto col tempo? La Musica sa mostrare il tempo e può dare una buona lettura dei tempi. Nel caso specifico mi interessano particolarmente tutti quei musici-artigiani che si focalizzano su pochi argomenti, che sfidano sé stessi nel tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore con pochi elementi, che sanno rivalutare di volta in volta gli oggetti sonori che hanno a disposizione in relazione al contesto che si viene a creare. È passata una vita intera, ma ricordo bene che da bambino sapevo stare ore da solo a giocare con quattro pezzi di Lego. In generale non mi piace riempire il tempo, e per quello che posso, provo ad interpretarlo e a stuzzicarlo.
Il tempo di questo disco è un punto labile da cui osservare il mondo, quasi non esiste, quasi contraddice la matematica, quasi vuol essere motivo di giustificazione per concedere licenza alla libertà. Eppure, in “Dust” come in “Strings”, al tempo devi molto, quasi lo cerchi. Dunque qual è la verità? Serve o serve per dimostrare che possiamo farne a meno?
La tua è una domanda molto complessa, ritmo e tempo hanno così tante implicazioni, sono temi così trasversali a molte discipline, dall’antropologia alla filosofia, dalla musicologia alla psicologia della musica, che condensare il tutto in un’unica risposta scritta non può che portare a qualcosa di inevitabilmente parziale. Diventerebbe qualcos’altro, non più un’intervista; oltretutto questo è un tema a me molto caro a cui ho dedicato gli ultimi due anni, concentrati in un lavoro di ricerca sull’embodied music cognition da cui ho tratto un documentario dal titolo Il Rubatore di Gesti. Il titolo è un omaggio al compositore e didatta canadese Murray Schafer, ideatore del World Sounscape project e autore fra le altre cose de El rinoceronte en el aula che ha ispirato il titolo di questo lavoro di ricerca.
Magari un giorno avremo modo di parlare anche di questo. Tornando a monte, va premesso che in ambito ritmico approcci e soluzioni si diversificano da cultura a cultura e cambiano di epoca in epoca nella stessa civiltà: noi abbiamo la stessa difficoltà a comprendere ed eseguire la polifonia di “Palestrina”, che è parte del nostro patrimonio culturale, nella stessa misura con cui proviamo a sincronizzarci su un 11/16 di un canto popolare magiaro, per fare un esempio. Ecco perché sciogliere questi interrogativi richiede il contributo di settori disciplinari diversi. Sicuramente il processo di acculturazione incide fortemente sulla nostra capacità di sincronizzazione.
È vero che nel mio lavoro c’è opposizione fra ritmo misurato, come in “Dust” e “Strings” e le ripetute asincronie fra i diversi livelli metrici di riferimento, come in “Trees”, che da semplice 7/4 nell’aggravarsi complica all’ascolto l’individuazione di una costante metrica. Credo che tale disorientamento sia dovuto, da una parte alla stratificazione ritmica, che ai diversi rapporti di durata fra gli strumenti. Questi due aspetti, che via via vengono moltiplicati hanno come effetto l’annullamento dal punto di vista del ritmo percepibile, ma al contempo fanno emergere con forza un nuovo parametro del suono. In sostanza, la stratificazione ritmica si trasforma in Timbro e l’ascolto viene catapultato altrove. In particolare in “Trees”, dedicato a Federico, il mio obiettivo era proprio quello di traghettare la speranza, che è ancora pulsazione nella consapevolezza che il Tempo per lui era terminato, lasciando che fosse il Rumore a prendersi cura dei “saluti finali”.
Dualismo è una parola importante. Requiem for a Tree è movimento e contemplazione, fantasia ma anche cruda verità. C’è tutto ma c’è anche il deserto. Ad abbracciare tutto però non pensi si finisca per non avere niente? In fondo anche la forma è diretta conseguenza di una limitazione e non dell’infinito.
Sono d’accordo con te, ogni forma può essere vista come una scatola chiusa. In questo non vedo nulla di anomalo se penso a come l’uomo, anche quello apparentemente meno direzionato la ricerchi. La forma in musica può agevolare il processo creativo, perché mostra strada facendo i suoi snodi sintattici, parafrasando delle boe di salvataggio, ed è quello il territorio in cui puoi decidere se forzarli o meno.
E qui torniamo al concetto di limitarsi per essere più libero: se scelgo con cura il materiale musicale di partenza, ho più possibilità di piegarlo alle mie volontà, ai miei bisogni. In Requiem for a Tree uso forme semplici perché volevo produrre un lavoro formalmente fruibile, che al contempo controbilanciasse una proposta in termini di contenuto sonoro sicuramente meno esplicita.
Riprendiamo “Strings”: in questo momento del requiem sembra ci sia spazio per la fantasia, per il gioco, per un momento magico, medievale. Dove ci stai portando?
“Strings” è l’unico vero momento narrativo-descrittivo del disco. Si colloca al centro di un’immaginaria struttura ad arco dove agli estremi si collocano i brani più intensi e di lunga durata, la cui estetica e gli argomenti proposti aiutano a chiarire il senso complessivo di Requiem for a Tree, a mio avviso.
Tornando a “Strings”, il tema è la manipolazione dello strumento musicale, il pianoforte, che qui è sempre presente dall’inizio alla fine. Rispetto alla sua parte, concepita su una figura gestuale archetipa, l’arpeggio, ho sentito la necessità di ripensare completamente l’uso di questo gesto sul pianoforte, intervenendo sullo strumento con elastici e corde, trasformandolo timbricamente in qualcos’altro. È un nuovo strumento quello che si ascolta, un meticcio fra arpa e banjo, un timbro nuovo che invita alla regressione per la gestualità infantile a cui sono ricorso; non uso la tastiera ma tiro le corde, sono gesti non usuali e di scarsa gestione, e il timbro si apprezza, a mio parere, proprio dalla gestualità che il timbro stesso suggerisce. Riprendendo la tua domanda, forse questo Medioevo incantato di cui parlavi potrebbe essere un effetto di tale trasformazione timbrica.
E poi un’altra contraddizione che davvero non riesco a codificare: la copertina di questo disco. Dalla montagna, dal rumore di fondo, dalla raffinata sospensione del vento e dell’infinito (chiavi di lettura tutte mie), leggo un’immagine industriale, quasi da manager, di carriera, con questo mobile antico per i vinili, in questa stanza che sembra provenire da un ufficio in Portogallo, con addirittura un tablet in bella vista piuttosto che un vecchio libro. E poi i riflessi che mescolano le forme, e non mi stupisce che l’orologio sia su questo versante della foto. Perché questa foto per questo disco?
Ti ringrazio molto per questa domanda. La copertina di Requiem for a Tree è una meravigliosa fotografia scattata da George Giurickovic, che ha curato tutto il progetto grafico. Come tutti quelli bravi, ti spiazzano sul momento, e così lui ha fatto con me.
La foto di copertina è stata scattata durante un suo viaggio nell’Ottobre del 2017. Ritrae quella che presumibilmente era la reception del Roy's Motel che comprendeva una caffetteria, una stazione di servizio e un'officina di riparazioni auto, defunta e abbandonata da molti anni, sulla National Trails Highway della US Route 66 nella città di Amboy, nel deserto del Mojave, nella contea di San Bernardino, in California.
George aveva racchiuso in quest’immagine alcuni elementi chiave della mia musica, dalla ricerca di staticità all’abbandono, dallo spaesamento alla ricerca estetica. Sarà forse stato un caso, ma quel suo viaggio partiva da Milano con la consapevolezza che da lì a poco avrebbe dovuto salutare per sempre suo padre. Saluto Pietro, ovunque lui sia, e ringrazio molto George per tutto il tempo e l’attenzione che mi ha dedicato.
Qualcuno disse che ad abbracciare il tronco di un albero potevo sentirne l’energia, potevo quasi dialogarci con l’albero. Bisognava restare fermi, in silenzio. E soprattutto bisognava sentirselo dentro questo dono di vicinanza. Lo sai che ascoltare questo disco un poco somiglia a tutto questo? Ogni volta sembra un disco diverso. cosa ne pensi tu, dopo averlo scritto e dopo averlo riascoltato?
John Cage diceva più o meno così: “il compositore fa dei progetti ma poi la musica fa quello che vuole”. Il fascino dell’imprevisto. La musica ci stupisce costantemente perché tutto sommato non si fa addomesticare fino in fondo. Detto questo, sono molto soddisfatto: sento che in questo momento mi rappresenti molto bene. I giudizi, quindi, li lascio agli ascoltatori e a quelli che come te mi hanno offerto uno spazio di ascolto e di dialogo.
E quindi perché Requiem for a tree? Perché una preghiera per i morti, per i defunti, per un albero?
Sono un agnostico che prega, la Terra è il mio Regno dei Cieli, ne sono assolutamente convinto. La Fede resta comunque una grande fascinazione. Gli alberi rappresentano tutti coloro che combattono, che resistono ma sanno rimanere al proprio posto.
Improvvisazione è un’altra parola importante. Tanti i musicisti, firme anche preziose nella nuova avanguardia underground, se mi concedi il termine. Che cosa hai chiesto loro durante la registrazione? Quanto e come hai concesso spazio libero di correre? E quanto hai preteso aderenza alla tua scrittura?
Le partecipazioni a questo disco sono tutti regali che mi sono stati fatti, ci tengo a sottolinearlo. Hanno contribuito sia musicisti che non conoscono la scrittura tradizionale sia quelli con una formazione classica. Ai primi ho concesso uno spazio creativo più libero, ai secondi, ai legni in particolare, molta fedeltà al testo, soprattutto in termini di non-espressività.
“Stones”. Ti lascio la mia interpretazione e vorrei confrontarla con la tua. Bellissimo questo pianoforte che sembra altro. Belle le dissonanze che sembrano mostrarmi la confusione e le assurdità della vita attorno, talmente piena zeppa di liquidità che ormai tutto è soffocato e fermo. Ma sotto sotto, c’è un cuore: questa cassa sintetica che non importa poi saperne l’origine, la vita sotto ogni cosa. Dimmi la tua.
Quella che hai individuato come cassa sintetica che si muove in poliritmia con il piano è il mio basso, suonato col pollice che comprime così tanto la corda sul pick-up da rendere l’altezza indeterminata.
È interessante che tu l’abbia scambiata per una cassa sintetica, non è un errore, il basso ricopre proprio quel ruolo. Più in generale, “Stones” è un palese omaggio a Brian Eno.
É una musica anti-dialettica, li dentro non c’è alcuna narrazione, nessuna storia da seguire. Puoi decidere di non ascoltare, andartene e ritornare ri-immergendoti nell’ascolto senza avere perso nulla. Non c’è direzionalità del tempo perché non c’è costruzione, intendo dire. “Stones” è un brano che non ha alcuno scopo!
E poi “Trees”, ed è proprio vero che qui regna tutto il disco. Regna il tempo e la sua contraddizione, regna tutto il suono che poi lascia spazio al solo rumore di fondo. Per te cosa significa, cos’è il rumore di fondo? Sai che trovo questa traccia come un vero manifesto sociale di oggi?
Non sei l’unico a pensarla così, ti ringrazio molto per questo apprezzamento. Quando penso a “Trees”, al di là di quello che già è emerso in altre chiacchierate con altri tuoi colleghi, mi piace tanto associare il brano ad un pensiero di un bambino disabile indiano.
Mi spiego meglio. Otre alla mia musica, mi occupo da una quindicina d’anni di didattica musicale e musicoterapia, insegno educazione musicale in una scuola Statale a Rozzano, nell’hinterland milanese. Il primo giorno di scuola trovo opportuno parlare ai bambini della fortuna di poter andare a scuola, che ancora credo sia il luogo in cui costruire il proprio futuro, scoprire passioni e confrontarsi con gli altri. Vorrei che sapessero fin da subito che per loro è un privilegio alzarsi alla mattina e in poco tempo raggiungerla. Ma il mondo è crudele e non è così per tutti. Allora da un po’ di anni ho deciso di proiettare uno splendido documentario di Pascal Plisson del 2013, pluripremiato, dal titolo Vado a scuola, che narra le vicende di quattro bambini provenienti da angoli sperduti del pianeta, che per frequentare la scuola affrontano lunghi viaggi a piedi, anche di cinque ore di sola andata pur di accedere alla conoscenza. Di queste storie, quella di Samuel, bimbo indiano poliomielitico, mi ha colpito profondamente. Tutti i giorni i suoi due fratelli, bimbi di otto anni, mossi dall’amore per il fratellino spingono la carrozzina di Samuel per più di tre ore pur di raggiungere assieme la scuola. Il sogno di Samuel è quello di diventare un giorno un dottore, per poter curare i bambini meno fortunati come lui. Quando parla del senso della vita, Samuel usa queste parole: “Noi veniamo al mondo con niente, e ce ne andremo con niente”. Questo è “Trees”
Restando sul brano: violenta o quasi la variazione che asciuga e conduce all’orchestrazione. Mi ha colpito molto questo passaggio che dura poche manciate di secondi e dal “gioco” delle parti si arriva proprio ad un requiem vero e proprio, il rumore di fondo che incontreremo invece sembra una diretta conseguenza. Ma questo passaggio così sghembo mi ha colpito. Ha un senso, un significato narrativo in particolare?
Violenta è la parola corretta. È una cesura netta, che corrisponde al momento inaspettato in cui ricevetti il messaggio da un’amica sulle condizioni di Federico. Musicalmente ho deciso di rispettare quel momento così per come nella brevità temporale si è svolto, e nel brano la transizione dura giusto il tempo di leggere un messaggio al telefono.
Chiudiamo, promesso. Trovo che Requiem for a tree sia davvero un disco alto. Lo ripeto ancora: un disco diverso ad ogni ascolto. Non so bene se le mie domande abbiano avuto un senso ma di sicuro fanno parte del senso di una persona che ha ascoltato a suo modo. Col senno di poi, dentro un lavoro così evocativo, evanescente, il senso che ritrovi tra le persone somiglia un poco a quello che tu volevi dargli? E sempre a posteriori, questa tua opera prima, somiglia un poco a Luca Recchia e a quello che voleva mostrarci?
Credo che chi mi conosce bene possa ritrovare in Requiem for a Tree una parte di me, forse quella più malinconia che un po’ mi contraddistingue. Ma devo essere onesto con te e con chi avrà voglia di leggere fino a qui. Mi trovo sempre un po’ spiazzato a parlare di musica usando un linguaggio esterno alla musica. Dietro alla musica ci sono solo suoni e nient’altro, non esistono storie, racconti, solo suoni. La musica parla solo di se stessa.
Saluto i tuoi lettori e ti ringrazio molto per avermi ospitato, per le curiosità, le domande e gli spunti di riflessione che abbiamo condiviso.