Con un esercito di una quarantina musicisti al seguito – buona parte della intellighenzia italica sonora della quale egli stesso fa parte: La Crus, Deproducers etc. – Alex Cremonesi prova a rivaleggiare – in grandezza – con quanto fatto da Keith Tippett e i Centipede a metà anni ’70. Quella era una rock orchestra che suonava contemporaneamente con tutti gli effettivi che schiumavano antipatie, competizione, creatività, al punto che Robert Wyatt pensò di chiamare Robert Fripp, il re degli inflessibili, a fare il produttore. Questo mega ensemble virtuale invece è frammentato in una serie di pattuglie di 2/3/4 assaltatori sonori, fatto salvo l’ultimo brano. Tutti dislocati, i componenti, in luoghi differenti: altra differenza, macroscopica, rispetto a come si faceva musica nei ‘70s. (Im)potenza della tecnologia.
Alex Cremonesi ci mette le parole di cinque brevi testi “ispirati al tema della psicanalisi” e un manifesto concettuale un po’ fumoso un po’ ambizioso: “Il termine ‘interstizio’ fu utilizzato da Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista, poiché sottratte alla legge del profilo: baratto, vendite in perdita, produzioni autarchiche… L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso. Crea spazi liberi e durate il cui ritmo si oppone a quelle che ordinano la vita quotidiana: favorisce un commercio interpersonale differente dalle “zone di comunicazione” che ci sono imposte”. Cosa significa, che se ti faccio una torta tu mi dai il tuo CD?
Concepita o riesumata la teoria, Cremonesi ha dato il via alla pratica spingendo musicisti e cantanti a metterci del loro nell’interpretare le parole e immaginare i suoni partendo da un frammento a loro scelta. Poi ha preso tutto, shakerato, frullato, aggiunto spezie e forse spazi chissà; generando un lavoro a tratti affascinante ma dal fiato corto. Le multiple interpretazioni dello stesso brano cantato non differiscono in maniera tale da porsi come campioni di mondi così distanti: la costante – ma vale per tutti i 17 pezzi – è l’elettronica – pura o spuria – alquanto risaputa e oramai globalizzata anch’essa, pare. Una tromba o un ritmo synth-bolero qua, una voce distorta o al contrario pop-lamé là non fanno la differenza (o non bastano a soddisfare le paturnie dell’ascoltatore smaliziato). E il trastullo è niente affatto originale: abbiamo sentito una miriade di volte lavori costruiti in scatola di montaggio con i pezzi provenienti dagli angoli più disparati.
Una manciata di brani incuriosiscono, alcuni sono accattivanti, ma alla lunga subentra una certa noia: ci si chiede quando arriverà la svolta per accorgersi che il disco è già finito.
Prevale il senso di un commesso viaggiatore che previo appuntamento si presenti a casa vostra, ed estratto un mixer dalla valigetta 24 ore vi faccia sentire il campionario di suoni della ditta. Belli, patinati, levigati, risaputi, e laddove timidamente fuori standard, osé ma non troppo. Tanto laboratorio, alambicco, bilancino, ma così poca anima. Nulla urtica, nulla nuoce, nulla incanta veramente. È così sciapa la colonna sonora di un sommovimento speculativo che “crea spazi liberi” e “si oppone”?
Nel comunicato stampa il disco – oltre a contenere 4 cartoline e il manifesto poetico – è descritto come “250 copie numerate assemblate a mano”. Come se pezzi fatti/stampati da una macchina ma messi insieme da due mani diventassero handmade. No, non è così. Mi ricorda che negli anni Sessanta/Settanta – sempre loro, dannatissimi – qui a Modena la Panini offriva il lavoro dell’imbustatura delle figurine a persone che lavoravano dal loro domicilio. Ma sulle buste non c’è mai stato scritto “assemblate a mano”. Ed erano vendute sempre a 10 lire ognuna.