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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
26/06/2024
Live Report
La Prima Estate, 23/06/2024, Lido di Camaiore
L'ultimo giorno de La Prima Estate si chiude con band del calibro di Fontaines D.C., Kasabian, Shame e Wu-Lu per un festival su cui non può che esserci un giudizio positivo, soprattutto per vivibilità e doppio pit. Dettagli e note ulteriori, tutte da scoprire nel report.

Partiamo subito da un dato: al netto di tutto quel che si può dire, La Prima Estate ha tutti gli attributi per divenire una rassegna di successo. Giunta alla terza edizione, la manifestazione organizzata da D’Alessandro e Galli a Lido di Camaiore, location vicina ma totalmente diversa da quella dell’ormai consolidato Lucca Summer Fest, sembra stia trovando gradualmente la quadratura del cerchio.

Il più grande miglioramento in questo 2024 si è riscontrato nella maggiore organicità nella composizione dei bill di ogni singola giornata, un dato importante se si pensa a quanto il pubblico italiano sia notoriamente poco versatile in fatto di ascolti, anche se si tratta di un aspetto ancora migliorabile.

Quest’anno ce l’ho fatta anch’io a ritagliarmi uno spazio per andarci, attirato dalla possibilità di rivedere in azione i Fontaines d.c. a due anni dall’ultima apparizione dalle nostre parti, ma anche dal poter testare la resa live di Wu-Lu, e con gli Shame come graditissima ciliegina sulla torta.

 

Arrivato sul posto, l’impressione è subito positiva: l’area, quella del Parco Bussola Domani, è ampia ma non dispersiva, niente a che vedere con le gigantesche praterie dell’Ippodromo di Milano o del Parco delle Cascine di Firenze. La zona del palco (che è grosso quanto basta) è fatta in modo da garantire visibilità anche dalle ultimissime file; c’è inoltre un doppio pit: quello di destra è a pagamento, accessibile solo con braccialetto, mentre quello di sinistra è libero e destinato ai primi che arrivano. E’ un sistema identico a quello che vigeva nei palchi grossi del Primavera Sound fino a qualche anno fa e trovo che, se proprio si devono far pagare certi privilegi che ai vecchi tempi si conquistavano con sudore e levatacce, questo sia il modo migliore per farlo.

In fondo c’è l’area dei servizi, con stand di cibo e bevande, bancarelle varie e l’immancabile merchandising ufficiale. Ci sono diverse zone d’ombra (anche se, visto il meteo di domenica, sono risultate del tutto inutili) ma purtroppo niente acqua gratis (tranne nella zona “vip”, ma solo perché c’erano i bagni con i lavandini), cosa che, per legge, se non vado errato, dovrebbe essere garantita ad ogni evento pubblico.

E qui torniamo al solito discorso: sono stato a diversi eventi simili all’estero, dal Primavera Sound al BST Hyde Park, passando per il recentissimo In the Meadows di Dublino. Ovunque si paga senza problemi con carta di credito: vuoi una birra? Paghi una birra, che costi 5 o 10 euro, la transizione è una sola. Noi no, non ce la possiamo fare. I-Days, Firenze Rocks, Springsteen a Monza e grandi raduni di massa di questo tipo, sono tutti basati sul sistema dei Token, costruito in modo tale da far spendere una cifra minima e con prezzi organizzati in modo tale che rimarrà sempre qualche euro di residuo che non si potrà spendere.

 

Ecco, fa male constatare che La Prima Estate del tanto sbandierato cashless si sia orientata sullo stesso sistema: al posto dei Token c’è una tessera ricaricabile ma la sostanza è la stessa. Ora, da semplice spettatore mi domando: esiste una ragione per cui non si può permettere il pagamento POS come ovunque nel mondo (peraltro, cosa possibilissima allo stand del merchandising ufficiale)? Perché, se esiste, sarebbe doveroso che gli organizzatori lo esplicitino con dovute argomentazioni. In caso contrario, non potremo far altro che reiterare i nostri soliti sospetti: che sia cioè fatto per mera sete di massimizzazione dei profitti.

Per non parlare poi dei prezzi allucinanti: 3 euro per una bottiglia d’acqua, 5 per una bibita, 6,5 per una birra (e qui ancora ancora), 12 per un panino. Sono appena stato al Fans Out di Vaglio Serra e si è mangiato e bevuto con ben altre cifre: siamo sicuri che, volendolo davvero, non si potrebbe fare così? Si obietterà che chi non vuole non è obbligato a consumare (e io infatti non ho speso un euro) ma nel momento in cui non si permette di introdurre all’interno cibo e bevande il discorso, a meno di non avere manie di ascetismo come il sottoscritto, diventa del tutto inutile.

Ci tengo però a dirlo: questa è davvero l’unica criticità riscontrata; per tutto il resto, aspetto musicale in primis (che alla fine è ciò che conta davvero) questa rassegna è risultata davvero ineccepibile.

 

Parliamo dei concerti, dunque. Wu-Lu lo aspettavo da un po’, per gli entusiasmi suscitati da un esordio come Loggerhead, uscito nel 2022 per la Warp, recentemente bissato dall’EP Learning to Swim on Empty, leggermente meno a fuoco ma ugualmente interessante.

Dal vivo Miles Romans-Hopcraft è accompagnato da una band di tre elementi (basso, tastiere e batteria, con lui stesso ad occuparsi della chitarra) ed accentua decisamente il lato Alternative Rock, con divagazioni strumentali senza un apparente direzione, che a tratti sconfinano nel Jazz. Per il resto, è la solita miscela di Hip Hop, Vapor Wave, Funk e un sacco di altre cose frullate e rimasticate fino a renderle irriconoscibili, uno sguardo eclettico e multiforme già fatta proprio (in contesti leggermente diversi) da nomi come King Krule e Yves Tumor. Ecco, a differenza loro forse mancano un po’ le canzoni, per cui è un set fatto di gran bei momenti ma che sembra essere privo di un centro ben preciso; più o meno quello che accade in studio, insomma. Nonostante tutto, parliamo di 45 minuti molto piacevoli, con un’energia notevole, anche considerato che tra i presenti non sembrava conoscerlo nessuno.

 

Mezz’ora di cambio palco e un cielo che, a differenza delle catastrofiche previsioni della vigilia, sembra volersi aprire (alla fine pioverà solo due volte: alla fine del set di Wu-Lu e all’inizio di quello dei Kasabian, vale a dire un quarto d’ora circa in tutto e mai in maniera torrenziale; dire che ci è andata bene non rende l’idea), poi sotto con gli Shame. La band di South London l’ho già vista diverse volte e non mi ha mai deluso. Certo, da quando hanno iniziato ad essere un po’ più ragionati nella scrittura dei brani, smorzando quella furia primordiale che li caratterizzava agli esordi, anche i loro live sono diventati meno distruttivi.

Nulla potrà mai eguagliare l’impatto sconvolgente che ebbero su di me al TOdays del 2021 (ma lì era anche un contesto diverso, c’erano ancora i concerti da seduti e questi avevano letteralmente tirato giù tutto dopo i primi trenta secondi) ma anche questa sera i cinque ci regalano uno show intenso e dannatamente buono, col cantante Charlie Steen sempre più carismatico ed il solito Sean Coyle-Smith (oggi con addosso la maglietta della nazionale, giusto per ricordare che siamo in clima Europei) che corre, salta, fa capriole e quant’altro, il tutto senza mai smettere di suonare il basso (e ogni tanto si ricorda pure di occuparsi delle backing vocals).

La scaletta è un buon compromesso tra le mazzate furibonde del primo album (“Six Pack”, “One Rizla”), gli ugualmente carichissimi episodi del secondo (“Snow Day”, “Alibis”, peccato sia mancata “Alphabet”) e le composizioni più riflessive ed articolate dell’ultimo Food for Worms (“Fingers of Steel”, la Power Ballad “Adderall”). Senza dubbio meno talentuosi dei loro colleghi irlandesi che si esibiranno come headliner, ma più interessanti dei più celebrati Idles. Il prossimo disco ci dirà qualcosa di più sul loro destino.

 

I Kasabian pubblicheranno il 5 luglio il nuovo album Happenings, il cui logo arcobaleno fa già bella mostra di sé sullo sfondo. Nel 2020 hanno vissuto un importante cambio di line up, quando si sono separati dal cantante Tom Meighan, per i noti episodi di violenza domestica ai danni dell’ex moglie. Da quel momento è stato Sergio Pizzorno a prendere le redini del gruppo anche dietro il microfono, soluzione più che naturale e che non ne ha per nulla penalizzato la resa live, anzi.

Dal vivo la band di Leicester è divertente e ruffiana come al solito, coerentemente con una proposta che non ho mai apprezzato più di tanto ma che è innegabile abbia prodotto le sue belle hit. Nel set di questa sera ce ne sono un bel po’, dall’iniziale “Clubfoot” a “Shoot the Runner”, da “Underdog” a “Vlad the Impaler”, alternate ad episodi del disco precedente e ai singoli del nuovo album già pubblicati. Da questo punto di vista, la differenza col vecchio repertorio è, almeno al primo ascolto, piuttosto impietosa, ma devo dire che una ballata come “Algorithms” mi è piaciuta davvero molto, ed anche “Chemicals”, che proviene da The Alchemist’s Euphoria e che non conoscevo, mi ha colpito per il tiro ed il potenziale melodico.

Per il resto, Pizzorno è bravissimo e gigioneggia quanto basta, conquistando il pubblico con frequenti passeggiate in mezzo alla platea. Gli altri appaiono un po’ compassati, fermi dietro le loro pedaliere e posizionati sul fondo dello stage (non so se fosse una scelta di allestimento o se dipendesse dal non voler prendersi l’acqua), così che il tutto, seppur vivace e coinvolgente, risulta anche un pochettino statico.

Non siamo più nel 2009 ed è evidente che non siano più la next big thing in ambito alternative. Hanno comunque una fanbase appassionata e dal vivo hanno ovviamente esperienza da vendere. Può darsi che non reciteranno più la parte dei protagonisti, ma potranno senz’altro godersi i prossimi anni in assoluta tranquillità.

 

Alle 22.45 spaccate il palco viene illuminato da una luce verde ed il bassista dei Fontaines d.c. Connor Deegan III fa il suo ingresso in solitaria, martellando una cupa litania funebre che, quando gli altri lo raggiungono, si trasforma in “Romance”, title track del disco in uscita ad agosto, al momento inedita ma già più volte presentata dal vivo in questo tour estivo. È una ballata cupa, che esplora territori toccati anche in passato dal gruppo, anche se il tutto appare declinato in una prospettiva più gothic, almeno a giudicare dal primo ascolto.

È piuttosto breve e funziona più da intro, poi parte a ruota “Jackie Down the Line” e il concerto entra nel vivo. Quel che colpisce, ritrovandoli a due anni di distanza, è la consapevolezza dei propri mezzi, nonché l’autorevolezza che riescono a sfoggiare. Se in passato la resa live era ottima sui brani più diretti e lineari del primo disco, ma lasciava intravedere margini di miglioramento sul resto del repertorio, l’impressione è adesso di una maggior precisione e anche di un’impronta unitaria nel suono e nel modo di trattare i vari brani.

L’interazione col pubblico, che già in passato era minima, è ridotta a zero ma si capisce che è un espediente scenico per far parlare la musica: le atmosfere sono gelide, a tratti asettiche, ma le esecuzioni sono molto più potenti che nelle versioni in studio; in generale, abbiamo a che fare con una band cresciuta, mentalmente e tecnicamente, che suona dannatamente bene e che anche sul palco dimostra in pieno la propria statura.

Grian Chatten non spicca come frontman ma ha un carisma magnetico che funziona benissimo e tiene in pugno il pubblico con poche mosse ed una prestazione vocale potente e priva di sbavature. Per il resto tutto funziona alla grande, dalla sezione ritmica martellante e precisa, alle chitarre ora aggressive ora vaporose, in un’interazione coi Synth portata avanti con grande efficacia dal membro aggiunto

È un concerto per certi versi sontuoso, che rasenta la perfezione e che è rovinato solo da continui problemi tecnici alla chitarra di Carlos O’ Connell, che costringe ad un certo punto il gruppo a lasciare il palco per cinque minuti in modo tale che il danno potesse essere definitivamente riparato. Al di là di questo, rimaniamo a bocca aperta dall’inizio alla fine, anche perché la qualità dei brani che hanno in repertorio risulta assolutamente inattaccabile.

 

La scaletta è quella standard, non ci sono grosse variazioni rispetto al tour di due anni prima: c’è la solita carrellata di pezzi da Skinty Fia, che colpiscono per impatto e potenza magniloquente. La title track è un gioiello di rara perfezione in odore di Joy Division, “How Cold Love Is” ancora più lenta e angosciosa, “Big Shot” risulta perfetta nel suo equilibrio tra aggressività dei suoni ed effetto straniante delle melodie, e costituisce forse il miglior esempio del livello a cui è arrivata oggi la band irlandese.

Benissimo anche gli estratti da A Hero’s Death, il loro disco meno accessibile e forse per questo meno riprodotto in sede live. Ciononostante, quegli espisodi già collaudati come “Televised Mind”, “A Lucid’s Dream” e “I Don’t Belong” sono resi con grande perizia e tensione, mentre la title track si ricollega direttamente alle prime cose ed è dunque uno dei momenti di massima potenza dello show.

È interessante anche notare come le canzoni di Dogrel non siano più il focus della setlist come accadeva in precedenza. Certo, “Big”, “Sha Sha Sha”, “Too Real”, “Boys in the Better Land”, hanno già da tempo assurto alla statura di classici e provocano sempre la solita bolgia sotto il palco, ma questa volta l’impressione è che le cose più recenti siano entrate allo stesso modo nel cuore dei fan.

Nel finale vengono anche proposti i due nuovi singoli, “Favourite” e “Starbuster”, entrambe usciti benissimo, anche se ad impressionare particolarmente è stata quest’ultimo, con le sue ritmiche Urban ed il suo ritornello che è già divenuto un tormentone. Pezzo gigantesco, se anche gli altri saranno a questo livello ne vedremo delle belle.  

 

Si chiude così un’altra edizione de La Prima Estate e per quanto ci riguarda il giudizio non può che essere positivo. Come già detto all’inizio, per il futuro ci auspichiamo solo un maggior equilibrio nelle line up, ed una gestione di cibo e bevande che sia più rispettosa della fiducia che il pubblico ha dimostrato di nutrire nei confronti di questa rassegna. Per il resto, siamo assolutamente nella direzione giusta.