Era forse il 2017 (sono troppo pigro per andare a controllare, perdonatemi) e mentre il concerto conclusivo del tour de La fine dei vent’anni, in un Alcatraz gremito ma ben lontano dal sold out, volgeva al termine, io e alcuni amici ragionavamo sul futuro discografico che avrebbe atteso Francesco Motta.
Alla fine ha avuto ragione quello che tra noi prevedeva un drastico calo qualitativo, con la sua scrittura sempre uguale che, non più guidata dalla sapiente mano di Riccardo Sinigallia (si sapeva già che non avrebbero più collaborato) avrebbe preso il sopravvento inficiando la qualità dei lavori successivi.
Non me ne voglia Taketo Gohara, che su Vivere o morire e Semplice ha fatto un lavoro splendido, e non se la prenda Tommaso Colliva, da cui Francesco si è recato per realizzare La musica è finita: che nessuno si senta offeso ma per me, nella discografia dell’ex Criminal Jokers, quel folgorante debutto del 2016 rimane a tutt’oggi ineguagliato e, scusate la franchezza, dubito che sarà mai superato da qualcos’altro.
Il problema di Motta è che canta sempre allo stesso modo, si muove sempre su quella tonalità e a livello compositivo le soluzioni di cui è in possesso non sono moltissime. Può essere un bene, perché gli ha facilitato la creazione di un marchio di fabbrica indelebile, ma è anche un danno, nella misura in cui i suoi brani, per quanto li giri e li rigiri, risultano sempre fin troppo simili tra loro.
Sarà forse anche per questo che la decisione di affidarsi a contributi esterni, per musica e parole, sembra aver pagato: La musica è finita è stato dal suo autore presentato come un nuovo inizio, come un totale rinnovamento della proposta, e ascoltandolo pare proprio che sia così. Senza stimare eccessivamente la portata di tale rivoluzione (perché quando inizia a cantare non è che possano esserci molti dubbi) è vero tuttavia che il quarto disco di Motta è il meno Motta di tutti, quello più fuori dalla solita comfort zone e, di conseguenza, il più interessante dal già citato debutto.
Il punto di partenza, come lui stesso ha spiegato, è stata la colonna sonora di Euphoria firmata da Labrinth, che gli avrebbe fatto capire come la separazione tra musica con le chitarre e musica coi synth sia in realtà fittizia (a me pare un concetto vecchio di anni ma pazienza). Ne è scaturita la voglia di giocare a campo aperto, da una parte sfoltendo gli elementi per ogni singola canzone, dall’altra caricandola di suoni, unendo le chitarre distorte, i sintetizzatori e i fiati in maniera per lui inedita, a creare effetti tutt’altro che spiacevoli.
Un disco tematicamente a due facce, simboleggiato dalla suggestiva copertina di Pepsy Romanoff, e più esplicitamente rappresentato da “Intervallo”, break da poco più di un minuto dove sembra riversarsi tutta l’energia che Francesco e la sua band esprimono durante i live (immagino che i suoi prossimi concerti si apriranno così, anche se forse è una soluzione fin troppo prevedibile).
Da una parte, dunque, lo sguardo allargato sul mondo esterno, in una prospettiva “terza” lontana dalla tendenza all’autobiografismo dei dischi precedenti; dall’altra, un più marcato affondo sulla propria dimensione interiore, sulla propria intimità, un tentativo culminato col brano che virtualmente chiude il disco (c’è anche una “bonus track” che s’intitola “Per sempre”, diritta e ispirata, uno dei migliori brani rock del suo repertorio), “Quello che ancora non c’è”, che è forse quello che maggiormente ne certifica la maturazione come autore.
Collaborazioni esterne, dicevamo. C’è innanzitutto quella sui testi, con “Anime perse”, la ballata che apre il disco con un insolito tono cupo, scritta assieme a Danno (Colle Der Fomento) e “La musica è finita”, ritmata e tribale come lo era gran parte del primo album, a quattro mani con Francesco Bianconi. E poi i featuring veri e propri, che coprono più o meno la metà della tracklist e che contribuiscono non poco a questa ampiezza di orizzonti di cui già si diceva, e che è indubbiamente il dato maggiormente positivo di questo nuovo lavoro: “Titoli di coda”, con Willie Peyote, è quella sulla carta più improbabile ma all’atto pratico funziona abbastanza bene, anche se la strofa del rapper torinese non è granché e ci dà l’impressione che la sua proposta si stia avviando verso una fase di invecchiamento precoce. Giovanni Truppi appare invece totalmente fuori posto in “Alice”, brano dedicato da Francesco alla sorella (che in passato aveva duettato con lui sul palco), in assoluto una delle più belle per testo e forza melodica, purtroppo rovinata da un parlato verboso ed eccessivamente sentimentale.
“Scusa” è un’altra grande canzone, impreziosita in sede strumentale dal contributo di Jeremiah Fraites (Lumineers), in rappresentanza di quelle influenze internazionali che Motta non ha mai negato e che sono qui testimoniante anche dalla presenza di Mauro Refosco alle percussioni (che aveva già suonato in Semplice, va detto). Ultima collaborazione è quella con Ginevra in “Maledetta voglia di felicità”: colpito dopo averla sentita al Concerto del Primo Maggio, Francesco l’ha invitata in studio ed il brano è nato così, improvvisando spontaneamente. C’è una grande alchimia tra le loro voci, si ha anzi l’impressione che la cantante piemontese sia riuscita a far venire fuori di più l’espressività di Motta, che infatti qui offre la prova migliore di tutto il disco, dimostrando anche di essere in grado di migliorarsi.
Se aggiungiamo anche “Per non pensarci più”, col suo ritornello catchy e pieno di groove, ed un brano dall’alto tasso di ballabilità come “Se non avessi avuto te”, si avrà il quadro di un disco variegato ed ottimamente riuscito, sebbene non privo di difetti.
Non una rivoluzione, dunque, ma è vero che la metafora del nuovo inizio calza a pennello: quel futuro che balenava piuttosto incerto sei anni fa, oggi si è fatto un po’ più luminoso. E tutto questo, è bene ribadirlo, nonostante Sanremo ed una dimensione mainstream sfiorata ma per fortuna mai raggiunta.
Attendiamo il tour che partirà a giorni, perché dal vivo è sempre stato imperdibile e perché con l’innesto di Whitemary ai Synth lo sarà ancora di più.