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La Morte di Virgilio
Hermann Broch
2016  (Feltrinelli)
LIBRI E ALTRE STORIE
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10/06/2019
Hermann Broch
La Morte di Virgilio
Il pregio del libro è senza alcun dubbio il linguaggio, la prosa tortuosa, densa, ad ampio respiro, capace di descrivere tanto gli oggetti materiali quanto i moti dell’animo con lo stesso realismo allucinato che trascende nel sogno.

Hermann Broch, autore viennese di origine ebraica, pubblica il suo primo romanzo nel 1931, già quarantenne; l’opera, I sonnambuli, è una trilogia sulla decadenza dei valori della società contemporanea e subito si pone all’attenzione del pubblico per la peculiarità della sua narrazione e per l’impianto filosofico che la sottende. Nel 1938, in seguito all’Anschluss, Broch viene incarcerato dai nazisti e viene liberato grazie all’aiuto dei suoi amici intellettuali, James Joyce in primis, che gli permettono di emigrare negli Stati Uniti. È proprio qui che lo scrittore, nel 1945, dopo sette anni di lavoro, porta a termine La morte di Virgilio, un romanzo che narra le ultime 18 ore di vita di Virgilio, a Brindisi, tra il 21 e il 22 settembre del 19 a. C.

Amico, come si è detto, degli intellettuali e degli scrittori più importanti del ‘900, con molti di loro Broch intrattiene un intenso scambio epistolare, e nomi come Canetti, Mann, Einstein, Joyce, sono i primi, tra i pochi, a leggere La morte di Virgilio, sollecitati proprio dallo stesso autore consapevole che il suo romanzo non avrebbe avuto facile diffusione. In effetti, il libro non ebbe alcuna eco. Probabilmente la forma inusuale, il linguaggio visionario, dovettero quantomeno disorientare anche i lettori più colti, se Thomas Mann descrisse il romanzo come uno dei “più inusitati e radicali esperimenti mai intrapresi con il duttile strumento del romanzo”. In ogni caso, paradossalmente, il romanzo che parla dell’immortalità della scrittura rimase dimenticato e questo sicuramente ha contribuito ad accrescerne il fascino.

In verità, non si tratta di un libro facile; tutto gira intorno al monologo di Virgilio che, ammalatosi al ritorno dal suo viaggio in Grecia, si trova sulla nave imperiale e, sentendo approssimarsi la fine, riflette sulla propria esistenza, sul proprio valore come poeta, sulla sua opera e sul senso della poesia nella società. È un Virgilio stanco, debole, disilluso, quello che Broch ci presenta. Sullo sfondo, la notte, il buio, rumori confusi, momenti di delirio febbrile, e poi la massa, la gente comune, con i suoi orrori quotidiani, le sue miserie, le sue meschinità. Questa massa disgusta il poeta ed in essa è facile vedere il disgusto di Broch per il popolo-gregge che si era votato totalmente alla dittatura in Germania e non solo, e anche l’orrore delle guerre civili e della morte di Cesare sono un riferimento al conflitto mondiale. Nel vedere la massa esultante di fronte all’arrivo dell’imperatore a Brindisi, e la corte che si dedica solo ai piaceri e alla dissolutezza, Virgilio prova orrore per questa «plebaglia di metropoli», questa «bestialità in fermento». E di fronte a tutto questo, c’è lo Stato, c’è il senato romano, c’è Augusto, e tutti sembrano indifferenti a questo orrore, lontani dalla realtà.

Quel che Virgilio vede intorno a sé è ciò che Broch sperimenta nella sua vita e nella società contemporanea: la finzione della bellezza, della gentilezza, dell’umanità, della gloria - «Chi non è nella conoscenza, deve stordire nell'ebbrezza il vuoto che è dentro di lui, perciò anche nell'ebbrezza della vittoria, anche della vittoria cui si assiste come semplici spettatori» -, dietro cui si nasconde solo viltà - «Eroe è solo colui che sopporta di essere senza armi» -, orrore, egoismo: ,«Proprio l’uomo più crudele ama accendersi di entusiasmo per un fiore». Il poeta non può più cantare la bellezza, l’idealità, esaltare ciò che non è: deve invitare all’azione, deve sacrificare l’arte alla concretezza, per cercare di incidere fattivamente nella società perché la vera immortalità sta dentro l’uomo: «Soltanto ciò che è celato nel nostro io è più grande di noi, è per noi immortale […] ma ciò che non portiamo dentro di noi […] è per noi mortale, e non sarà mai più grande di noi, né ci potrà mai racchiudere». Non a caso, dopo la pubblicazione de La morte di Virgilio, Broch si dedica ad un saggio sull’isteria di massa, oltre che a studi ed approfondimenti sulla psicoanalisi e la sociologia. Inoltre, si impegna per i diritti umani e si fa propugnatore della lotta anti-fascista.

Di fronte a questa realtà così terribile e volgare, l’opera letteraria è estranea nella sua bellezza eternatrice, non appartiene al mondo mortale, non rappresenta dunque la realtà, e per questo l’Eneide nelle intenzioni dell’autore deve essere distrutta. Deve essere distrutta in nome della lealtà verso Augusto, verso i suoi amici, verso la poesia, soprattutto verso se stesso, perché «A nessuna cosa che manchi di lealtà è lecito sopravvivere».

Oltre a questo tema centrale, il romanzo verte intorno alla decadenza della società romana (e quindi sulla decadenza della società europea del ‘900), dovuta principalmente alla perdita della religio e della pietas, e alla perdita della conoscenza. Ad esse si deve senza dubbio l’insensatezza dei totalitarismi e dello sterminio degli ebrei, delle persecuzioni, della guerra. Quando l’uomo si distacca dalla conoscenza, perde se stesso: «La conoscenza rimane sempre come dovere, essa rimane sempre il divino compito dell’uomo», e ancora: «L’uomo è immerso nel compito della conoscenza, e nulla ne lo può distogliere, neanche l’inevitabilità dell’errore».

Ogni tanto, i pensieri di Virgilio sono interrotti da dialoghi con gli amici, tra cui Ottaviano, e in questi passi ci sono momenti di grandissima letteratura, ove traspare la grande preparazione di Broch e la profonda conoscenza della cultura latina in tutte le sue declinazioni. Attraverso le riflessioni del poeta latino, come si è detto, Broch si interroga sul ruolo dell’intellettuale, dello scrittore, nella società e nella storia, su quanto egli sia lontano dalla realtà perché rinchiuso nel mondo della propria creazione artistica, una dimensione che è immortale e in quanto tale è ancora più estranea alla realtà mortale. Lo scrittore, nel comporre un’opera, si fa creatore come Dio e come Dio ha il potere di distruggere la sua creazione. Virgilio, colpito dalla febbre, riflette su questo concetto e decide di dare alle fiamme la sua Eneide, di distruggerla per sempre. Come sappiamo, ciò non gli sarà consentito da Ottaviano, e infatti Broch inserisce un meraviglioso dialogo fra il giovane Augusto e il poeta ormai morente, in cui il primo riesce ad avere la meglio sulla volontà del secondo, debilitata dalla malattia, e sottrae l’Eneide all’oblio.

Un interrogativo a questo punto emerge prepotentemente: se per Virgilio/Broch, la bellezza della creazione deve essere distrutta in nome dell’azione incisiva dell’artista nella realtà, nel mondo vero con tutti i suoi orrori, perché Broch non distrugge egli stesso il suo romanzo? La risposta è lo stesso autore a fornircela in un suo scritto, quando afferma di aver voluto terminare il romanzo «[...]because I hope that it may possibly help in a small way to prevent a repetition of the cosmic horror that we have experienced».

Il pregio del libro è senza alcun dubbio il linguaggio, la prosa tortuosa, densa, ad ampio respiro, capace di descrivere tanto gli oggetti materiali quanto i moti dell’animo con lo stesso realismo allucinato che trascende nel sogno. Quella di Broch è una prosa lirica che, in molti punti, riecheggia proprio lo stile e il latino di Virgilio, tanto che non si fa fatica a dimenticare che l’autore è assai lontano nel tempo rispetto al poeta dell’Eneide e ci sembra che a parlare sia davvero lui, addirittura talvolta sembra riproporre il ritmo imponente dell’esametro, la sua delicata musicalità. E in effetti La morte di Virgilio, nella sua suddivisione in 4 movimenti che corrispondono ai 4 elementi primordiali, acqua, terra, fuoco, aria, si presenta, in fin dei conti, proprio come una grande e meravigliosa sinfonia: il canto della storia, dell’arte e dell’anima.

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