“Oggi il punk corre il rischio di essere dato per scontato. Come nel caso di Elvis o dei Beatles, il termine viene impiegato in un modo che sembra implicare la consapevolezza precisa di cosa il punk è stato e di cosa il punk ha significato. La musica che tra il 1976 e il 1978 ha seminato agitazione e panico tra critici, politici, esperti di media e dirigenti discografici è ora diventata un’altra comoda pietra miliare nella periodizzazione convenzionale della storia culturale e musicale recente. A quanto pare viviamo in un mondo ‘post-punk’”. (Dave Laing – “Il Punk: storia di una sottocultura rock” – EDT Edizioni, 1991).
Quanto scriveva Dave Laing nell’introduzione al succitato volume sembra plausibile ancora oggi. Nelle migliaia di “storie del rock” vergate dalla critica mainstream negli ultimi trent’anni, il fenomeno punk è faccenda che germina nel 1976, deflagra nel 1977 e si consuma simbolicamente e in modo definitivo il 14 gennaio 1978 al Winterland di San Francisco, nell’ultimo infame concerto dei Sex Pistols. “Ever get the feeling you’ve been cheated?” domanda con plateale amarezza proprio da quell palco un Johnny Rotten annoiato e coperto di sputi che non vede l’ora di mettere fine a una grottesca pantomima trascinantesi ormai da un anno. Si sente tradito, da tutti: facile leggere nella domanda (retorica, certo) assai più di quanto Rotten volesse significare. Infatti, da sempre, esegeti, sociologi, critici musicali ed esperti di cultural studies si sbizzarriscono nell’attribuire mille e più significati a quello specifico momento e a quella specifica esternazione dell’icona punk per eccellenza. Come a dire “Johnny ha detto che il punk è morto, quindi tutti a casa”. Per molti, però, il punk era ancora vivo e vegeto. PUNK’S NOT DEAD: così recitava lo slogan più diffuso (e celebre anche oltre i confini del punk stesso) tra le migliaia di nuove creste che continuavano a spuntare come erba cattiva in tutto il Regno Unito.
Il “discorso” intorno al punk è invero assai complesso e si (auto)alimenta di contraddizioni e paradossi, andando ben oltre il semplice concetto di “genere”: in quanto sottocultura giovanile, esso incorpora ambiti che hanno a che fare con la sociologia, lo stile (inteso non solo come “moda”), l’arte, la linguistica, la semiologia e la politica. Questa stratificata complessità è inquadrata con perspicacia da Stewart Home nel suo libro Cranked Up Really High: An Inside Account of Punk Rock (tradotto in italiano col titolo “Marci, sporchi e imbecilli. Attraverso la rivolta punk” e pubblicato da Arcana): “È necessario dimostrare una volta per tutte che il Punk Rock non è (stato) profondo, che non è (stato) una ‘manifestazione d’avanguardia’ e che chiunque si metta a cercare il senso della vita in un disco di plastica sta perdendo tempo. Non voglio dire che il Punk non è (stato) un riflesso della società che l’ha prodotto, né che è inutile considerarlo un oggetto di studi culturali o sociologici. Non sto nemmeno dicendo che quanti parteciparono al ‘movimento’ sono in grado di definirne il significato una volta per tutte. Al contrario, direi che il Punk Rock inteso come genere musicale non è stabile e statico bensì fluido, e che i suoi confini vengono continuamente ridefiniti. È proprio il fatto che molti dei saggi pseudo-accademici sull’argomento non giungano a questa conclusione che ne annulla ogni valenza critica.”
Temo – e mi assumo la piena responsabilità di quanto sto per dire – che analizzare il punk sotto la comoda lente del “rock and roll” significhi ridurre il fenomeno a semplice sottogenere, darlo, come asserisce Laing, semplicisticamente per scontato in quanto variazione sul tema. Sono tanto punk i Damned quanto lo sono i Crass, pur non avendo nulla in comune e, anzi, collocandosi addirittura su posizioni ideologiche e musicali antitetiche in una virtuale mappatura del fenomeno. Ridurlo a “genere”, quindi, significa (anche) ignorare il fittissimo sottobosco che esso stesso si è creato per sopravvivere e che, lontano dai riflettori del mainstream, ha continuato a far caciara almeno fino alla metà degli anni ottanta. Senza la conoscenza di questa “foresta vergine”, la comprensione stessa del ‘fenomeno punk’ non può che rimanere a un livello superficiale, cioè quello della spettacolarizzazione.
Più sopra ho affermato che il punk si (auto)alimenta di contraddizioni, di paradossi, e dunque, come esiste la “santa trinità” del punk mainstream (non è un ossimoro) composta da Sex Pistols, The Clash e The Damned, esiste anche una “santa trinità” del punk underground (non è una tautologia) composta da The Exploited, G.B.H. e Discharge. A voler essere pignoli, dal punto di vista della notorietà e dell’esposizione mediatica, essi non rientrano propriamente nel “sommerso”, essendo nomi piuttosto noti tanto a chi, come il sottoscritto, ha vissuto gli anni 80, quanto a chi, pur non avendoli vissuti in prima persona, è appassionato di “roba punk”; tuttavia, la loro sincera attitudine D.I.Y. e anti-establishment (col beneficio del dubbio per quanto concerne la sincerità degli Exploited e non dando troppo peso a certo “divismo” tipico dei G.B.H.) li colloca di diritto al di fuori del mainstream. Queste tre band, che rappresentano la cosiddetta second wave del punk, rivestono un ruolo di primaria importanza (va detto qui che per comodità d’esposizione e per talune singolarità che lo rendono unico e in parte off topic all’interno del panorama oggetto di questa analisi, quello che forse è il gruppo più importante della scena, i Crass, non viene preso in considerazione in quanto meriterebbe una trattazione ad hoc).
C’è un mito da sfatare subito: che i gruppi ‘punk rock’ non sapessero suonare. Almeno per quanto concerne il punk settantasettino il caos sonoro era prodotto intenzionalmente e consapevolmente. Certo, Steve Jones non sarebbe mai stato in grado (e non lo è tutt’ora) di eseguire un assolo à la Jimmy Page, ma non era forse proprio questo modo sontuoso e “colto” (da riccardone, si direbbe oggi) di fare musica ad aver scatenato al “risposta” punk? Quale significato avrebbe prodotto “God Save The Queen” se, diciamo, tra la seconda e la terza strofa, Jonesy ci avesse schiaffato un bell’assolo rock-blues? Dobbiamo tenere a mente che ci troviamo all’interno dello spazio sottoculturale, dove ogni significante (anche e soprattutto quelli non strettamente linguistici come ad esempio un assolo di chitarra) diventa necessariamente produttore di un significato specifico legato a quello spazio. Altro esempio classico: la svastica al braccio di Siouxsie ovvero un simbolo connotato di elementi “negativi” produce o vuole produrre un significato positivo di shock culturale. Allo stesso modo, il “non saper suonare” produce, sempre a livello di significato, la destituzione della rockstar come “divinità”, introducendo una possibilità che fino a quel momento pareva irrealizzabile: tutti possono farlo (ed è piuttosto facile cogliere qui una delle tante contraddizioni del punk). Alla luce di ciò, un assolo di chitarra perfettamente eseguito non poteva che produrre un significato opposto alla natura stessa del punk. Ergo, via gli assolo, espressione dell’aristocrazia rock e di un’accademia che era appannaggio dei pochi che se la potevano permettere (pochissimi, in verità, nell’Inghilterra degli anni Settanta) e dentro l’ormai proverbiale “urgenza espressiva”, senza trucchi, senza effetti, senza PA da centinaia di migliaia di sterline, senza le “falsità” e gli artifici dei mostri sacri (o, come si diceva allora, dinosauri), Sex Pistols compresi che, in barba al tanto sbandierato dilettantismo e alle regole che essi stessi avevano contribuito a demolire, levigarono con spasmodico e professionalissimo perfezionismo il loro Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, tanto da risultare, alla fine, quasi una versione aggiornata dei Rolling Stones. Altro che ribelli, sovversivi e innovatori (a onor del vero, va detto che in realtà lo furono).
Il punk mise in scena il “vero”, il non mediato, la genuinità e l’autenticità come antitesi alla spettacolarizzazione dello star-system, e quando dico “mise in scena” lo intendo letteralmente: lo rappresentò a sua volta come spettacolo. Ergo, il punk fu tutto tranne che “vero”, non mediato e genuino. Un caotico cazzeggiare adolescenziale tra divertimento e provocazione gratuita, un modo per fare casino diverso dal solito. La anti-star-system che diventa il nuovo star-system (e non escludo che all’aver preso troppo sul serio il desiderio di essere “anti-star” si debba l’imperante mediocrità del panorama rock attuale, ma questo è un altro discorso). A riprova di ciò valgano le dozzine di interpretazioni diverse che già all’epoca i protagonisti della scena davano al significato di “essere punk” e che, inevitabilmente, ebbero più che sostanziali riflessi anche sul tipo di musica che quelle interpretazioni ispiravano.
Il dibattito sul punk (cosa è punk e cosa non lo è) partorì ben tre scismi: il post-punk, l’hardcore-punk e l’anarco-punk. Sono le tre grandi parafrasi del punk dopo il big bang del ’77.
(A completamento sonoro del presente articolo, potrete trovare nella sezione TRACKS tre brani – uno per gruppo – tra i più rappresentativi di G.B.H., The Exploited e Discharge.)