Odio la rete e la sua omologazione che viaggia al tempo di un micro-beat - semmai possa esistere questa unità di misura. Le mie lunghe interviste, interessanti o meno che siano, vogliono tempo. Un tempo largo e non lungo, un tempo lento-pede che possa lasciarsi misurare in emozioni e non in target. Ma dalla rete spesso pesco anche qualche buona musica e scopro solo ora questo disco uscito nel 2015 dal titolo “Bread and Circuses” uscito per Freak House Records… un lavoro che però, proprio in questo tempo nostro, viene ristampato in vinile in un’edizione limitata a 300 copie che ho avuto l’onore e la fortuna di intercettare. Ed è così che scopro i preziosi di una vita parallela a quella delle televisioni e delle grandi radio. La bella musica italiana che questa volta non si isola nei suoi cliché ma apre le porte alla contaminazione restando comunque in un deciso equilibrio di leggera normalità. La bella musica italiana, come in questo caso, diventa internazionale di un inglese credibile e vincente.
Sono psicopatici e folli nella misura in cui ciò significa libertà di essere se stessi, nella convinzione di quanto sia ricchezza la diversità particolare… cose bandite dal potere costituito, come diciamo sempre. Ed è così che nella follia, quella romantica, ritrovo il potere dell’uomo, della sua arte e della bellezza che questa sprigiona per il solo fatto di esistere più che per la forma di facciata che decide di assumere per compiacere il mercato. Che poi questo disco è bello anche nella facciata illuminata a giorno e la cosa non guasta.
Psychopathic Romantics, band campana portata a spalla dalla splendida voce di Mario “Dust” La Porta, italo-americano dalla timbrica che spazia con mestiere dalla concretezza alla fantasia senza soluzione di continuità. E poi questo suono dal gusto alt-folk ma anche “pop internazionale” di grandi route, di quelle trame capaci di disegnare la vita come un lungo viaggio dentro il tempo, giocando a dadi con le forme e che mai perdono di personalità anche quando decide di rispettare le regole dei cliché… personalità anche in questo. Un disco che gioca tantissimo, si diverte… lo sento… danza dentro le religioni, dentro le ricchezze dei dettagli, dentro l’onestà dei propri limiti. Il suono suonato che ultimamente i nostri hanno anche messo a nudo in belle sessioni live “domestiche”, intime e raccolte…
Ho ascoltato tantissime volte questo disco. E penso che la pulizia della normalità, oggi, sia una dolcissima follia romantica, alta quanto alta sa essere una vera poesia.
Bugie: io partirei da questa parola. Queste canzoni sembrano quasi voler denunciare un vivere comune che si accontenta, che in qualche modo si fa andar bene tutto, basta che ci sia pane e divertimento… dunque queste sono canzoni che denunciano questa nostra resa alla convivenza con quotidiane bugie?
Sì, in effetti il titolo dell’album rimanda al concetto “panem et circenses”, la nota strategia del consenso di latina memoria (ma sempre attualissima!) basata sul principio che per tener soggiogato un popolo senza grandi preoccupazioni basta che questo abbia giusto un po’ di pane in tavola e una buona dose di distrazioni e intrattenimento.
Qualcuno ha detto che la verità non è altro che la bugia a cui hanno creduto più persone. Il confine tra verità e bugia in ambito storico, politico e sociale è sempre molto labile, e il fatto che si utilizzino correntemente espressioni come “la verità ufficiale” ci fa capire che la questione è davvero soggettiva, e questo non è un mistero. Eppure siamo portati a credere, per pigrizia ma anche per comodità e convenienza (tanto abbiamo il pane e il circo) al castello di bugie quotidiane create ad hoc per indirizzare le nostre scelte e che accettiamo come silenzioso compromesso per il nostro benessere.
Le canzoni rappresentano qualcuno degli aspetti di queste bugie che viviamo più o meno consapevolmente, cercando di metterli in luce a modo nostro, ma esprimono anche il disagio di chi invece devia dalla strada indicata e la realtà prova a metterla in dubbio: un disagio dovuto allo smarrimento di questa condizione e al rischio che una così difficile scelta comporta.
Circo: un’altra parola che a me piace tantissimo. Parlo spesso del circo quando devo descrivere la quotidiana vita che accade ogni giorno sulle nostre mani. Pensate sia colpa nostra, che, come detto sopra, accettiamo le bugie e quindi alimentiamo il circo, o pensate che sia colpa di un qualche sistema circense che conduce lo spettacolo sulla nostra vita? Insomma noi siamo gli attori o gli spettatori?
Noi non siamo colpevoli per questo sistema predeterminato, non lo abbiamo creato noi e ci siamo semplicemente ritrovati dentro. E starci dentro ci rende complici inconsapevoli, non possiamo che alimentarlo e seguirne le regole: in sostanza siamo degli spettatori, è troppo difficile scardinare quanto radicato nella società per secoli. Possiamo però essere attori in un mondo parallelo che possiamo crearci con l’aiuto dell’immaginazione e della fantasia. La musica e l’arte in generale sono il mezzo per creare un mondo di questo tipo, condiviso con altri. In questo mondo l’artista è l’attrazione del circo, l’attore. Gli spettatori sono chi ascolta, chi guarda le opere, chi legge i versi. Aprire la mente, far riflettere, far esplorare nuove sensazioni, fornire bellezza: è questa la responsabilità dell’artista verso gli spettatori affinché questo mondo parallelo e del tutto mentale abbia un risvolto concreto in quello reale, contribuendo in quest’ultimo all’emanciparsi il più possibile dallo stato di inerte spettatore.
La rottura degli equilibri: in tutto questo mi colpisce molto l’immagine di copertina. Solitudine ma anche rottura delle attese, delle aspettative… e comunque, nonostante la rottura, persiste una pur sempre voglia di coesistere con la solitudine. Cosa mi dite in merito?
L’autore della suggestiva immagine di copertina è il fotografo Eliano Imperato, con lui abbiamo il piacere di collaborare già da molto tempo tanto che lo consideriamo a tutti gli effetti il ‘quinto psycho’. Gli abbiamo sottoposto i contenuti del disco, testi e musica, e ci ha proposto quest’immagine che ci è piaciuta da subito: quel cavalluccio per noi rappresenta l’elemento di eccezione su uno sfondo piatto, desolato e uniforme. Eccezione è speranza, è colore. Ma vuol dire al tempo stesso anche disagio e solitudine. Bè, questa è solo la nostra visione naturalmente, bisognerebbe chiedere direttamente all’autore cosa ci vede lui. Non l’abbiamo mai fatto e tutto sommato ci va bene così.
E per quale motivo poi, nel retro del disco l’immagine è a pixel giganti tanto da non poterne distinguere i contorni? Come a dire forse che in fondo, immersi in questo equilibrio, non si vede la verità?
È vero, sul retro di copertina c’è sempre la stessa immagine che però si dissolve, lasciando all’immaginazione di ciascuno una diversa interpretazione. Ci piace pensare che l’indefinitezza dei pixel sia in realtà uno stimolo per visualizzare e mettere a fuoco idealmente una propria immagine. È una trovata che si è anche rivelata utile, perché nella pratica ci ha dato la possibilità di ottimizzare la leggibilità dei titoli dei brani e dei credits riportati sul retro.
E questo concetto lo ritrovo anche nell’estetica delle canzoni. Soprattutto la voce di Dust, spesso rompe gli schemi, è in un certo modo psychopathic, mi richiama allegorie da cartoni animati. C’è la rottura di qualcosa se non del tutto, spesso ne siamo sorpresi come sorprendono canzoni come “Extra Special Need Guy”… ma poi, quasi con naturalezza, il tutto resta armonico e la rivoluzione, la sorpresa e le aspettative di normalità convivono assieme con molto equilibrio. È la mia sensazione ovviamente… voi che ne pensate?
La tua sensazione è giusta, la scrittura delle canzoni e il modo di cantarle sono processi che per quanto creativi ed eccezionali hanno sempre un piede nella realtà e quindi la rispecchiano. L’equilibrio armonico di cui parli scaturisce dalla genuinità dei brani, che risultano molto veri e quindi bilanciati tra elementi di ordine e di squilibrio - come la voce di Dust - proprio come succede nella realtà.
Ci fa piacere che citi i cartoni animati, Dust è un grande estimatore di Bugs Bunny, un personaggio anche lui molto vero, normalissimo al netto di essere un coniglio, anche lui si barcamena in una verosimile realtà dove crea spesso scompiglio e rompe gli schemi, ma solo per raggiungere il suo scopo, alla fine di ogni storia. È furbo, intelligente e capace di sorprendere uscendo con astuzia da situazioni complicate, ma lo fa da normale, col minimo sforzo possibile e senza poteri o doti particolari: alla fine lui vuole solo mangiare in pace la sua carota, non vuole fare mica la rivoluzione. Una trasposizione dell’agire umano molto efficace.
Nello specifico, questo modo di gestire la voce (che forse è l’elemento più caratterizzante del disco) da dove nasce e da dove prende ispirazione?
Dust non fa nient’altro che scrivere e cantare come pensa e come parla. Nessuna particolare ricerca, se c’è da ringraziare qualcuno, quelli sono fumo e alcool. Dovresti fare una chiacchierata con lui per capire che nella vita di tutti i giorni è esattamente così come ti appare ascoltando il disco. E a dirla tutta non era neanche contento all’idea di diventare il cantante della band, ma poi la scelta si è rivelata quella giusta e non solo perché l’inglese gli è congeniale in quanto italoamericano, ma anche perché nessun altro canterebbe con più onestà di lui le cose che lui stesso scrive.
Il Tempo: altra parola fondamentale nel mio ascolto di “Bread and Circuses”. In particolare dentro “The Gathering” (che penso sia il brano che mi dimostra una forza maggiore) il tempo è l’elemento che cuce assieme, sempre secondo me, tutto il concept del disco. Abbiamo bisogno di tempo per capirlo… per capirci… per tornare a vedere… che forse dopo questo tempo avrebbe senso restituire chiarezza all’immagine nel retro di copertina… è così?
“The Gathering” è una canzone di speranza. Se cambiamento potrà esserci, allora l’unica via percorribile sta nella condivisione e nell’unione tra le persone. Trasformare l’eccezione e la solitudine di cui parlavamo prima in ‘riunione’, trasformare quel disagio in forza: occorre far fronte comune. Non è successo ancora, se non in ancora troppo pochi episodi nella storia dell’umanità. Credere che sia solo questione di tempo, è questa la vera speranza. Non rassegnarsi ed avere fiducia che un cambiamento avverrà, prima o poi. L’informazione, la consapevolezza e la coscienza smossa, perché no, anche dalla musica, sono gli strumenti per onorare e perseguire questa speranza. Se, come dici, riusciremo a fare chiarezza o meno, questo è secondario. È il percorso di ricerca stesso che dà valore e importanza allo sforzo che si sta compiendo, non il raggiungimento del fine.
E visto che le vostre scritture spaziano tanto nel tempo con stili di tradizione ma anche con richiami all’attualità - bellissime le soluzioni di “The Gathering” tra l’altro - mi chiedo: voi che rapporto avete con il tempo?
“Financial and religious debt keep you from living / They'll keep you running and striving to stop you from thinking / During the day they'll keep you busy money breeding / They'll give you nightmares at night to stop you from dreaming”
Questa strofa del brano “It’s all for you” spiega quello che secondo noi il tempo rappresenta in questa società. È un concetto chiave, alla base di tutto. Il lockdown globale da pandemia ha evidenziato quanto una sospensione temporale della macchina economica e produttiva possa avere risvolti e conseguenze molto dannose sul sistema, tanto da farlo seriamente traballare. Tutto è ossessivamente veloce, si deve correre e parecchio già solo per cercare di inseguire o mantenere il passo, non certo per superare o primeggiare. A proposito del disagio che esprimiamo nei brani, cui accennavamo prima, questo è dovuto anche al senso di inadeguatezza rispetto al tema del tempo. Noi siamo lenti, cerchiamo con difficoltà di adattarci ad una condizione che ci è richiesta, quella di correre appunto, ma non è la nostra. La cosa divertente è che ci ricattano col tranello che il tempo è poco e per questo c’è fretta nel fare tutto, e non solo per questioni produttive e di lavoro, si corre anche quando si parla del cosiddetto tempo libero. Eppure durante la quarantena ci siamo tutti accorti che il tempo è tanto, il tempo della natura s’intende, che poi forse è l’unico che veramente dovrebbe contare. Molto smarrimento è scaturito dal non sapere neanche come riempirlo tutto questo tempo improvvisamente a disposizione. Il grande Luciano De Crescenzo a tal proposito diceva che l’uomo moderno si impegna nella ricerca affannosa di allungare il tempo, vivere più a lungo a tutti i costi grazie al progresso e in nome di quest’ultimo asservire la propria vita, perdendo di vista la cosa davvero importante, e cioè il bisogno di allargare il tempo, riempendo al meglio e dando spessore a quello che abbiamo a disposizione.
A chiudere: secondo voi, il romanticismo, l’amore, la libertà intesa come potere critico individuale, oggi sono sintomi di follia? Oggi coloro che guardano, che sanno o che riescono a vedere, sono degli psychopathics?
Camilleri usava una bella metafora a proposito della presunta scomparsa della poesia come mezzo di comunicazione moderno: la poesia è come un fiume carsico, di quelli cioè che ogni tanto scompaiono ma riaffiorano alla vista un po’ più a valle. Prendiamo in prestito questa metafora per dire che queste cose che citi, romanticismo, amore, libertà e senso critico non sono sintomi di follia, sono fiumi carsici, sono cose insite in ognuno di noi e che ogni tanto se stimolate emergono, ed emergendo fanno sì che si vedano le cose più chiaramente o semplicemente da un altro - e tutto nuovo - punto di vista, che ti rende sempre più ‘eccezione’, sempre più elemento di rottura rispetto alla realtà. Ci si chiede allora se questo continuo mutare sia da folli, e se folle è la nuova condizione, o lo era la precedente, e ci chiediamo anche gli altri come ci giudicano nell’uno e nell’altro caso. Ma poi cosa è folle? Il folle comunemente indicato come tale dalla società non è veramente folle, il più delle volte è solo un individuo che vede le cose dal suo punto di vista, semplicemente diverso. E poi chi può dirlo se tra lui e la società il folle sia proprio lui…