“Fare fatica, soffrire, per andare oltre quella montagna di pietre e sentirsi rinati, respirare a pieni polmoni e probabilmente per avere una visuale più ampia, più nitida, più leggera” (M. Vaiani).
Il tempo è un elemento fermo, di marmo o di ferro grezzo, scegliete voi… è qualcosa di pesante che non lo alzi con le mani nude. Il tempo lo trovo sempre quando si parla di musica d’autore… ed è un tempo largo e non lungo, un tempo di riflessione sulle piccole cose poggiate ieri o ieri l’altro, un tempo di passi lenti e misurati con attenzione artigiana, passi dolorosi di fatica ma ricchi di quella speranza che poi, dopo i tanti gradoni da scalare, arriva la luce del giorno nuovo. E poi esiste la geografia che è spazio aperto, che è un eterno deserto senza limiti, dentro cui spostarsi alla velocità del pensiero. E il suono, quello d’autore, diviene inglese, americano, diviene rock’n’roll e pop, si fa silenzioso e chirurgico, si rende scivoloso oppure si ricopre di quel velo di nebbia leggera che rende preziosa ogni visione futura, al tramonto soprattutto. Il primo ascolto di questo secondo disco personale di Maurizio Vaiani, RosGos per celebrare il suo moniker, è come una goccia che cade sulla pietra… noi siamo le pietre indurite dalle abitudini e dai confronti che sappiamo soltanto sfoggiare. L’acqua che cade a gocce, le sue personali gocce di suono, scalfisce un poco alla volta fino ad insinuarsi dentro e a lasciarmi dire che questo “Lost in the Desert” è uno di quei lavori che avrò alle orecchie quando avrò qualche buona visione da attendere alla finestra del giorno. America rock, punk inglese, folk che arriva dall’Irlanda più cosmopolita… il pop internazionale ben vellutato di soluzioni comode… il tutto misurato senza mai eccessi o evidenze sfacciate, senza quel bisogno di calcare la mano.
Ogni brano ha la forza di restare ed è in quel certo modo di non svelare le carte a pieno che riesce a farsi desiderare ancora. “Lost in the Desert” e poi ricco di silenzio e di spazi aperti, con le presenze nastriformi che circondano il suono di “Sara”, con la pioggia che devo per forza sentirci dentro ogni volta che gira una canzone pulita di chitarra e voce come “Free to Weep”, o come la notte di grandi statali che si disegnano attorno al mood di “17” che inevitabilmente mi riportano alle ragioni (acustiche questa volta) dei Mokadelic di ieri. E poi la rivoluzione dark di “The Date” o le sottili soluzioni pop(olarmente) industriali di singoli come “Mary Ann” o “Standing in the Light” che quasi ci rivedo dentro quei R.E.M. che viaggiano in contemplazione, tra l’aeroporto di New York o le dissonanze sospese delle avventure in Hi-Fi.
RosGos mi ha regalato un viaggio in treno, come Anna ha fatto, ho poggiato la testa al finestrino, come Anna ha fatto, e anch’io - nonostante non sia nato da poco come lei - ho lasciato le regole nel tempo dei grandi e ho sognato cose che avevano il sapore della pioggia, il peso della solitudine e l’energia della fatica, quella importante che restituisce solo crescita e nuove cose. Non ha scoperto l’America RosGos… non è il disco del cambiamento. Ma, e non è per niente poca cosa, ha semplicemente celebrato se stesso, senza limiti, come fosse perduto in un deserto. Venirne fuori non è questione di forza o di fortuna. Venirne fuori è questione di saper essere se stessi.
La parola di questo disco per me è tempo. Eh sì perché i Jenny’s Joke, ad un ascolto - diciamo così - urbano, periferico, mi hanno sempre restituito un senso di periferia, inglese più che americana, anzi berlinese oserei dire. RosGos invece è spudoratamente in pellegrinaggio su grandi route a stelle e strisce. Dimmi la tua… che ne pensi e cos’è capitato in questo tempo nella geografia della tua musica?
Bella questa associazione tra musica e geografia. Leggere che i Jenny's fossero addirittura berlinesi mi riempie il cuore. Berlino è una città che personalmente amo e che mi ha dato input pazzeschi. Un paio di autori dei Jenny's Joke, tra cui io stesso, erano molto legati a quella scena e quindi inevitabilmente, anche se inconsapevolmente, abbiamo risentito di quei flussi. Il fatto che nel tempo mi sia spostato più a occidente credo sia la naturale conseguenza di un mio maggiore ascolto e attenzione ad una certa scena americana. In primis l'ascolto quasi in loop di alcuni lavori dei 16 Horsepowers durante la gestazione dell'album.
Non da sottovalutare anche il fatto che i Jenny's Joke erano produttori di se stessi mentre nel mio progetto mi avvalgo della collaborazione di un produttore esterno, il carissimo amico Marco Torriani (TORIA) che mi ha fortemente aiutato ad andare in questa direzione. Questi spostamenti geografici e quindi di approccio musicale ed anche di mood, oltre ad essere la diretta conseguenza della nostra quotidianità vissuta, tengono anche conto, almeno nel mio caso, di un tentativo di ricerca, di andare oltre al già sondato e sperimentato. E quindi è un continuo movimento e peregrinare. In questi mesi, ad esempio, stiamo già lavorando ad un prossimo album e la sensazione, quasi certezza, è che non ti ritroverai più in terra americana ma altrove.
Per quanto il tuo modo di cantare per me resta inglese e non americano… e non so cosa ne pensi… sinceramente lo strumming dolcissimo con cui spesso disegni le melodie di chitarra, la chiusa delle vocali nelle liriche… penso a “Telephone song” prima di tutto… mi rimanda inevitabilmente a quando il punk inglese ha cambiato faccia per il mercato discografico… a te la palla…
Credo tu abbia visto e soprattutto sentito molto bene. Come puoi immaginare, quando sei un gruppo musicale sconosciuto ai più non devi rendere conto a nessuno, non devi fondamentalmente studiare il mercato, ma sei il più naturale possibile. Di conseguenza questo status ti permette di approcciarti alle tue creazioni con un cuore liberissimo da box in cui sono racchiuse le esigenze di mercato, di etichette e di fans. Ecco perché quello che senti, quello che ogni ascoltatore avrà modo di sentire, è il frutto del tutto naturale e non studiato del lavoro di creazione di due persone, Maurizio Vaiani e Marco Torriani. Questa naturalezza porta con se il bagaglio culturale musicale che ci siamo costruiti negli anni, frutto di migliaia di ascolti e di scoperte. Non posso quindi che essere completamente d'accordo con te quando affermi che in questo lavoro senti il mio stile più inglese. È una conseguenza inevitabile quando passi la tua adolescenza con in cuffia musica prettamente inglese, suoni wave e soprattutto punk. Cresci con quelle sonorità, con quel mood e ti ritrovi 20/30 anni dopo con un critico musicale che la sa lunga, ci vede e ci sente anche meglio, e quindi riscopre la tua adolescenza. Come andare dallo psicologo :-). Sentire tutto questo soprattutto in “Telephone song” probabilmente è dovuto al fatto che è la canzone più tirata, più sporca, e quindi potrebbe risentire maggiormente delle influenze che abbiamo citato poco prima.
Il viaggio di questo disco lo disegno metaforicamente lungo una traiettoria. I due capi sono ben definiti. Partiamo dal primo: Brani come “Free to weep” o “Sara”, il silenzio, la sintesi e i larghi spazi di polvere. Anche qui c’è un rapporto assai anacronistico con il tempo. Anzi direi un rapporto totalmente in controtendenza rispetto all’attualità. Io trovo che sia in brani come questi la vera essenza desertica del disco…
Mi trovi d'accordo anche in questa analisi. Iniziare oggi, nel 2020, con un brano come “Free to weep” credo sia, da ogni punto di vista, da pazzi. Sarebbe stato molto più semplice cominciare in modo easy con “Standing in the light”, o in modo più aggressivo dalla presa facile come “Telephone song”. Ma l'obiettivo di un artista è dare anche un senso al proprio lavoro. E nel mio caso era necessario iniziare con quella canzone. Un modo per mettere in chiaro fin da subito che il percorso non sarebbe stato per forza di cose semplice o scontato. Come dici tu, i silenzi, le poche note, quelle dilatazioni nei suoni e anche nelle parole mi servono per creare un'ambientazione. In questo caso un'ambientazione prettamente desertica. Molti hanno notato, giustamente, la componente desertica attraverso l'utilizzo di alcuni suoni, soprattutto di chitarre. Ma è proprio nella dilatazione del tutto, in quei silenzi, che anche a parer mio risalta maggiormente questo mood, una sorta di passeggiata in solitaria nel deserto, che accompagna il percorso delle 11 canzoni.
L’altro estremo direi che è racchiuso dentro brani come “The date” che tra l’altro trovo essere un momento di totale ispirazione rispetto al leitmotiv desertico del disco. Sembra quasi che nel viaggio lungo il deserto, si è come giunti tra i ruderi di una grande metropoli industriale…
Mi viene da sorridere, e sai perché? Perché, semplicemente, hai visto benissimo. La sensazione è che in questo punto accade qualcosa. Puoi vederci una ex metropoli industriale (panorama che adoro e che in effetti trova spazio nel mio video del singolo “Standing in the light”), oppure puoi vederci anche altro. Nella mia immaginazione, ad esempio, non vedo un ambiente geografico ma della mente, uno scambio di colpe, di ammissioni, una sorta di duello all'ultimo sangue, un duello non fatto di parole urlate ma di sguardi. In ogni caso con l'arrivo di “The Date” accade un cambiamento. Assolutamente d'accordo.
Senza girarci attorno. Ho forte l’impressione che questo brano è come se non facesse parte di questo disco. Ha davvero una pasta totalmente diversa, nelle intenzioni, nel rispetto del tempo, nel mix… sono sensazioni mie del tutto discutibili o c’è per davvero qualcosa di diverso?
Posso ora svelarti perché poche righe prima ho detto che mi veniva da sorridere. “The Date” fino all'ultimo secondo non sapevo nemmeno se avesse trovato posto nell'album. Perché sì, è diverso, suona in modo diverso, è stato gestito al banco mix in modo inevitabilmente diverso. In pratica stai dando ragione al produttore, al mio amico Marco. Lui non lo voleva mettere. Eliminato. Ma cavoli, sono il papà, come faccio a mettere all'angolo un figlio? C'è stato un tira e molla per qualche tempo, poi al momento della stampa ho deciso di inserirlo e di trovarne una collocazione. È vero, suona diverso, ma mi sembra un bel pezzo. A me piace molto. Le mie parole a Marco, per giustificare la scelta furono: ma se non farò più altri album significherà che questo pezzo andrà perso. Non lo posso accettare. (Un produttore cattivo mi avrebbe gambizzato ahah)
Poi esiste il “pop” da viaggio e qui, la prima parte del disco, è ben schierata a favore. Da una parte dunque i cliché della forma, dall’altra la trasgressione e la libertà. Secondo te dove si nascondono l’istinto e la verità?
Credo che in ogni brano che compone il cd ci sia istinto e verità. Semplicemente ogni pezzo prende forma cammin facendo, trasformandosi e vestendosi con abiti a lui più comodi e congeniali. Ci sono bozze mie iniziali con soluzioni lontanissime dal pop che poi sono diventate forse le più fruibili e semplici. Prendiamo ad esempio il singolo “Standing in the light”: all'ascolto attuale è decisamente la canzone più pop ma se ti dovessi passare la mia bozza iniziale capiresti come sia cambiata. Al contrario, strutture apparentemente semplici sono diventate assolutamente più difficili con un bisogno di attenzione più accentuato. Non ci sono calcoli, almeno nel nostro piccolo progetto. Le canzoni sono solo il frutto di continue trasformazioni, capovolgimenti, scambi di idee e di emozioni. La somma finale sarà la canzone e a volte è lontana parente della sua bozza iniziale.
Mi incuriosisce questa copertina. Dove non vedo deserti. Vedo una parete. Sono sul fronte di un burrone. Metaforicamente non sono perso nel nulla ma anzi sono giunto o sto partendo da un bordo, da un limite… mi ha incuriosito molto questa “incoerenza”. La copertina non è dispersione, perdita di riferimenti. La copertina sancisce un ben definito limite e confine. Ho un orientamento. Sbaglio?
La copertina può dare questa sensazione che tu hai descritto. Essere di fronte a qualcosa di ben definito e non quindi a uno spazio infinito e di dispersione tipico del deserto. La tua sensazione è esatta. Il fatto è che per deserto non ho voluto intendere solo quello geografico fatto di spazi senza fine. Ho voluto, ho cercato, di dare voce al deserto dell'anima, allo svuotamento di interessi e passioni che smuovono la vita. Questo deserto, questo vuoto, crea barriere e rende tutto più difficile e sofferente. Per certi punti di vista trovo la nostra società in questa condizione. Ha di fronte questi gradoni di marmo. Li deve scalare, superare e apparentemente sembra tutto meno che facile. Ma quella fatica e quella sofferenza è necessaria per scalare, raggiungere, superare. Fare fatica, soffrire, per andare oltre quella montagna di pietre e sentirsi rinati, respirare a pieni polmoni e probabilmente per avere una visuale più ampia, più nitida, più leggera.
Tu che sei nato nel tempo dei vinili perché non hai pensato a stamparlo in vinile? Un disco questo che inevitabilmente deve stare su un solco, lo chiama anche quel certo modo di mixare la voce, con quel tremolo larghissimo (se non erro) che mi ricorda molto le chitarre rockabilly… c’è ruggine, c’è sospensione…
Non sai quanto mi sarebbe piaciuto. Non sei nemmeno il primo a farmi notare questa esigenza. La motivazione, ahimè, è stata unicamente di carattere economico e pratico. Sappiamo bene come ormai stampare un cd sia assolutamente una sola soddisfazione personale dell'autore. Il 90% di chi ascolta musica lo fa attraverso le piattaforme digitali e chi la musica la crea deve tenere ben presente queste nuove regole. Questo non toglie che mi sono stampato i cd fisici per me stesso, per la mia discoteca e anche perché, comunque, ci sono gli affezionati di questo supporto. Per il vinile chissà, visto che l'album ha avuto un ottimo riscontro ed è piaciuto davvero tanto, potrò ripensarci prossimamente. Mai dire mai.
Ecco a chiudere ritornerei a parlare di tempo: perché ho come l’impressione che “Lost in the desert” non sia un disco “contro” il tempo né a favore di tempo. Penso che questa ruggine ferrosa del suono, questi brani larghi di riflessione, siano un ignorare il tempo, un evitare di farne di conto perché c’è molto altro di più importante a cui pensare… “Lost in the desert” è un ascolto che non mi ha fatto pensare al tempo come ad una misura della vita…
Mi fa piacere questa tua considerazione, in particolar modo quando dici che c'è molto altro di più importante a cui pensare che non allo scorrere del tempo. Ed è proprio quello il punto. Ricollegandomi ad un concetto che ho espresso precedentemente ciò che ho tentato di esprimere in questo disco è la presa di coscienza di questo impoverimento sociale che io noto nonostante le tantissime associazioni, le tantissime persone che quotidianamente si spendono per e con gli altri. Mi piacerebbe che questa mia società facesse un passo avanti, scalasse con forza e fiducia quei gradoni della copertina e raggiungesse, con indubbia fatica e sofferenza, quella vetta oltre la quale si aprirà un mondo nuovo, una società rinnovata. È faticoso? Senza ombra di dubbio. Ma quanto vorrei che questo impoverimento, che per me rientra anch'esso nella visione desertica del tutto, si trasformasse in nuova forma, in integrazione ad esempio, nel più ampio senso del termine. Chissà, magari nel prossimo lavoro in copertina ci potrebbe stare ciò che si vedrà al di là di quella montagna di pietre che stazionano saldamente in copertina di “Lost in the desert”.