La fame nera è un titolo che comunica bene quell'urgenza di significato che muove ogni essere umano in ogni tempo e luogo ma inquadra anche perfettamente la generazione dei 25-30 anni che improvvisamente ha compreso come “questa non è la vita che mi avevi promesso”, per dirla con il ritornello del primo singolo "Tossico".
Battista è così. Viene dall'Abruzzo, che non è esattamente il primo posto che verrebbe in mente quando si parla di scene musicali, ha studiato in Conservatorio ma ha scelto di dedicarsi ad un tipo di proposta per così dire "popolare".
Che poi, a dirla tutta, è un po' il problema dell'Italia, che esista questa distinzione tra musica “colta” e non, e che soprattutto esista per chi ci governa. È un dato che non fa altro che renderci ancora più provinciali e dilettantisti di quel che siamo.
Sarebbe il terzo disco, questo, per Pierpaolo Battista, ma gli altri due erano stati più che altro esperimenti lo-fi che hanno avuto una diffusione limitata, ragion per cui non costituisce una forzatura trattarlo come un disco d’esordio, se non altro è il primo a nutrire una certa ambizione.
Prodotte da Marco “Diniz” di Nardo dei Management, queste dieci canzoni mantengono, anche dal punto di vista della scrittura, quel mood sghembo e trasversale da Indie dei primi anni Dieci che ha sempre caratterizzato il gruppo di Lanciano.
Battista si muove comunque in una dimensione tutta sua, dove non esistono etichette e dove quel che conta è utilizzare l’arte per abbandonarsi alla sua trascendenza e veicolare significati. Ma è anche il suo percorso formativo, che prende dentro sia Bach sia Eric Clapton senza particolari cesure e snobistici arricciamenti di naso e riesce a costruire canzoni apparentemente semplici ma che in realtà possiedono accorgimenti tecnici che solo uno che ha studiato nello specifico il linguaggio musicale può avere avuto in mente di adottare (è il caso per esempio di “Tossico”, che è costruita su intervalli distanti un tono e mezzo l'uno dall'altro).
Sono canzoni che non hanno paura di esplorare territori diversi, seppur mantenendo una certa continuità data dagli arrangiamenti scarni, improntati per lo più sulla chitarra e su una sezione ritmica tradizionale basso/batteria (hanno suonato tutto lui e Marco ad Avezzano, dove Pierpaolo vive). Per cui non è un problema passare dalle atmosfere “marce” del primo singolo “Tossico” a ballate disagiate come “M’innamoro” e “Piango”, a brani come “La colla nella pancia” e “Sarebbe bello”, che richiamano una certa New Wave in chiave Diaframma; oppure cose più “classiche” come “Mangiala”, “Venderò” e “Schiavo”, più ritmate ed orecchiabili, come a volersi riallacciare a quella stagione Indie Rock di cui sopra. E addirittura un brano come “Indaco”, vagamente baustelliano nelle intenzioni, pezzo da cantautore di razza che ha tutti gli strumenti per volare altissimo, se appena lo ritiene opportuno.
Per non parlare poi dei testi, lontanissimi dal disimpegno cazzaro di questi ultimi anni, che non hanno paura di apparire irriverenti e che sbattono in faccia situazioni e giudizi senza troppo riguardo per il politically correct. In “Mangiala” chiama in causa la guerra in Siria, il disinteresse dell’opinione pubblica e un certo buonismo astratto che dimentica gli ultimi, e lo fa pronunciando senza troppi problemi la famosa “N word” che farebbe inorridire gli apostoli della nuova fede Woke. In “Venderò” ironizza sulla mercificazione dei corpi e su come a che la dimensione esistenziale tenda ad essere ridotta e oggettivata dalla società odierna. In “Tossico” parla di promesse disattese che tuttavia non cancellano le domande di compimento. In “M’innamoro” e in “Indaco”, al contrario, si canta semplicemente l’amore, nella dimensione più pura del termine, con tutte le sue fragilità e insicurezze.
L’avevo già detto qualche mese fa, quando l’avevo intervistato in occasione dell’uscita del primo singolo: non sono in grado di fare previsioni ma questo è un disco italiano che sarebbe davvero imperdonabile ignorare.