L’ultimo concerto dei La Crus a Milano era stato nel 2008 al Teatro degli Arcimboldi, di fatto l’ultimo ballo prima dello scioglimento. Come ho già scritto in precedenza, io non ci andai e ancora non ricordo il motivo. Avevo visto il gruppo dal vivo diverse volte a partire dal tour di Dietro la curva del cuore, ma poi rimasi un po’ deluso dalle successive prove in studio e, immagino, nel momento in cui decisero di dire basta, mi ero già un po’ allontanato.
Mi è rimasta un po’ dentro, questa cosa, motivo per cui ho accolto con enorme gioia la reunion di una band che, volente o nolente, è stata fondamentale per la mia formazione musicale. Di Proteggimi da ciò che voglio, l’ispiratissimo disco del ritorno, ho già detto parecchio (qui trovate la recensione e qui la mia intervista con Mauro Ermanno Giovanardi), per cui non mi dilungo.
Questa sera finalmente i La Crus ritornano nella loro Milano e, anche se il tour è ben lungi dall’essere finito, si respira l’aria della grande festa. Il Santeria di viale Toscana è sold out da diversi mesi, la sala è piena di amici e fan, il clima è quello della celebrazione, forse un po’ nostalgica data l’età media (e il nuovo disco è tutto tranne che nostalgico, occorre dire) ma in fin dei conti è abbastanza inevitabile.
In apertura c’è una bella sorpresa: Lele Battista, che non vedevo in azione da tantissimo tempo. L’ultimo lavoro solista, Mi do mi medio mi mento, è datato 2016, poi il silenzio totale, se non qualche sporadico concerto ed il lavoro da produttore. Recentemente è stato ristampato in vinile L’eroe romantico, esordio della sua precedente band La Sintesi, che per l’occasione si è anche riformata per incidere un paio di nuovi brani (vedremo se si tratterà di un’iniziativa estemporanea o se ci sarà un seguito).
Lele è da solo, inizia al piano elettrico e poi si sposta alla chitarra, proponendo una manciata di brani dal suo repertorio solista, tra cui non mancano ovviamente “Trieste” e “Le ombre”, senza dubbio tra le sue cose più famose. Molto bella anche la resa di “Stravinsky”, uno dei due nuovi pezzi de La Sintesi, più malinconico e “serioso” nel testo e nelle atmosfere, rispetto a quella che era la cifra stilistica del gruppo. Ci sono anche estratti da quello che è tuttora il suo ultimo disco, con “24.000 anni”, “Se questo fosse un sogno” e “Le occasioni che perdono”, quest’ultima in una versione per sola voce ed elettronica.
Speriamo di vederlo presto in un contesto più ampio perché in questa mezz’ora scarsa abbiamo capito che ci mancava parecchio.
Dopodiché dagli altoparlanti si diffonde il rumore di un temporale, che va avanti finché i La Crus non salgono sul palco ad eseguire, come da copione, “La pioggia”, primo brano del nuovo album. La formazione è leggermente diversa rispetto all’ultima volta: ci sono ovviamente Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti, alla batteria ritroviamo Leziero Rescigno, al basso c’è Marco Carusino, alle tastiere e ai cori Chiara Castello (i più attenti se la ricorderanno nelle I’m Not a Blonde, un duo che ha fatto cose molto interessanti, soprattutto agli esordi).
Si tratta di un allestimento per certi versi inedito ma funziona a meraviglia: i brani godono di una resa profonda e toccante, ed è soprattutto Chiara Castello la vera scoperta: la tastiera valorizza i momenti più melodici e stratifica molto il suono, mentre le backing vocals donano un tocco di raffinatezza in più e risultano fondamentali nell’enfatizzare i ritornelli più orecchiabili.
Il dato più sorprendente della scaletta, se vogliamo, è l’assenza totale di quella componente elettronica che caratterizzava i primi due dischi e che abbiamo ritrovato anche su questo ultimo lavoro (da cui, appunto, è stata lasciata fuori “Sono stato anch’io una stella”, più legato a questo tipo di approccio). È un concerto che privilegia la forma canzone, dunque, come se il gruppo volesse riappropriarsi innanzitutto del suo lato cantautorale, prima di fare qualsiasi altro passo.
Per il resto c’è poco da dire: la prova offerta è superlativa, ogni canzone un piccolo gioiello, da parte di un gruppo che appare più rodato che mai, in possesso di un’intesa reale tra i componenti e per nulla arrugginito dagli anni (del resto il tour è iniziato da un po’ e, soprattutto, stiamo parlando di musicisti che sono sempre rimasti in attività), con Giovanardi soprattutto in stato di grazia, vocalmente addirittura meglio di venticinque anni fa (se non altro in termini di controllo ed espressività) e come sempre frontman carismatico.
La scaletta è stata piuttosto telefonata e forse è questo l’unico appunto che si potrebbe muovere loro, l’aver lasciato fuori brani magari un po’ più ricercati (penso soprattutto ad “Inventario”, “La luce al neon dei baracchini”, “Natura morta” o “Notti bianche”) per privilegiare quelli più conosciuti, mettendo insieme una sorta di ideale greatest hits. Una scelta che personalmente non avrei fatto, ma da molti punti di vista comprensibile, per queste prime date dopo così tanto tempo.
E poi non prendiamoci in giro: col repertorio che hanno, non è che le canzoni più famose siano brutte, eh! La dimostrazione è che quando parte “Come ogni volta” (incredibilmente presto, terzo o quarto pezzo) i brividi lungo la schiena sono tanti, il singalong è obbligatorio e funziona tutto molto bene, anche in questa versione leggermente diversa e riarrangiata, che segue bene o male la recente riproposizione in studio con Colapesce e Dimartino come ospiti.
Il momento più emozionante però è la presenza di Paolo Milanesi, storico trombettista del gruppo, che ha suonato su un paio di brani del disco nuovo ma che non ha preso parte al tour. Lo vediamo spuntare dal nulla, nel bel mezzo di “Natale a Milano”, l’entusiasmo del pubblico è indescrivibile e scende pure qualche lacrima.
Rimarrà sul palco per gran parte della serata e la sua tromba farà splendere di luce intensissima canzoni come “L’uomo che non hai” (resa pazzesca, una delle più belle del set) e “Dentro me”, eseguita in una scarna ed efficacissima versione in trio.
Da segnalare anche la presenza di Matteo Cantaluppi, che ha prodotto il disco (“Ci ha aiutati in un momento in cui eravamo un po’ bloccati” ha detto Gio presentandolo) e che viene invitato a suonare le tastiere sulla title track.
E poi, evento decisamente incredibile, prima volta assoluta nella storia dei La Crus, si presenta on stage anche Alessandro Cremonesi, paroliere e da sempre terzo uomo del gruppo, fondamentale nel processo creativo ma costantemente dietro le quinte (in questi anni ha realizzato comunque progetti personali di grande pregio, in bilico tra allestimento teatrale e musica elettronica). Canta, visibilmente emozionato, “Io non ho inventato la felicità”, e se la cava sorprendentemente bene, col pubblico che lo ripaga con un applauso scrosciante e straordinariamente affettuoso (questa comunione tra chi era sotto e chi era sopra è stata una delle cose più belle di questa serata e anche loro se ne sono accorti, era evidente che non vedessero l’ora di suonare nella loro città).
Ci saremmo aspettati la presenza di Vasco Brondi ma purtroppo l’artista ferrarese non è passato (probabilmente perché impegnato col proprio tour) e così la sua parte in “La rivoluzione” è stata presa in carico (molto bene, devo dire) da Chiara Castello; discorso diverso per la sanremese “Io confesso”, recentemente riproposta con Carmen Consoli come ospite, che sarebbe stato un po’ azzardato attendersi questa sera. Il brano viene suonato comunque, ed è una gran bella esecuzione, più energica dell’originale, che ne valorizza ugualmente la notevole componente melodica. A risentirla oggi, appare davvero un pezzo sopra la media, fosse uscita in un contesto temporale diverso forse avrebbe avuto una sorte migliore.
I bis cominciano coi soli Giovanardi, Malfatti e Milanesi sul palco, per una intensissima “Stringimi ancora”, dopodiché la loro ormai celebre cover de “Il vino” di Piero Ciampi si trasforma in una sorta di festa collettiva, col Santeria a cantare a squarciagola il ritornello: brano in realtà amarissimo, che in questa interpretazione corale non perde un’oncia della sua malinconia, ed è questo contrasto a rendere così speciale il momento.
Sembra tutto finito ma nessuno vorrebbe veramente che finisse. Ecco quindi Gio e Cesare tornare in scena per una versione commovente de “L’illogica allegria”, il brano di Gaber presente in quel capolavoro che fu Crocevia. La cantano tutti ed è in un certo senso un modo per rispondere allo scenario cupo del nuovo disco: quello che il vortice ossessivo del neoliberismo non potrà mai togliere, è ciò che nemmeno le peggiori dittature del Novecento sono mai riuscite a togliere: quei momenti di misterioso benessere, quelle “illogiche allegrie” che derivano dal sentirsi al proprio posto nel mondo, con l’intuizione che la vita sia fatta per essere vissuta.
È stato un concerto meraviglioso, non solo per il fisiologico impatto emozionale, quanto soprattutto per l’altissimo livello musicale di ciò che abbiamo ascoltato. I La Crus sono tornati e la sensazione è che non siano per nulla interessati a rincorrere la nostalgia. Li rivedremo presto a Milano (saranno il 3 settembre al Castello Sforzesco) ma l’attesa, per quanto mi riguarda, è tutta sul prossimo disco.