Ogni puntata della terza stagione della Casa di Carta si apre con l’avvertenza sovraimpressa che il programma conterrà pubblicità a prodotti commerciali. Sembra un particolare irrilevante, ma non lo è. Se questa serie tv aveva un senso, oltre a essere un buon action movie, divertente e per certi versi originale, quello era proprio il significato sottinteso, il secondo piano di lettura. Niente di eclatante ovviamente, ma quanto basta per eccitare gli animi di un pubblico adulto: la banda guidata dal Professore lottava contro il sistema e lo colpiva al cuore, danneggiandolo nella sua stessa essenza, cioè il denaro. Partigiani che combattevano per la libertà e che, seppur ladri, disprezzavano il profitto, dissacrando e sbeffeggiando il Sacro Graal delle società capitaliste.
Oggi, La Casa Di Carta, in conseguenza del clamoroso successo delle prime due stagioni, è diventato inevitabilmente un ingranaggio di quel sistema di cui gli sceneggiatori si vorrebbero far beffe, è una macchina da soldi, un veicolo per pubblicizzare prodotti commerciali. Si è, cioè, trasformata, come sempre accade nelle società globalizzate dall’imperialismo dei consumi, in un’icona svuotata di significato, in una benedizione post mortem a una rivoluzione già fallita prima ancora di iniziare, svilita da stereotipi e banalità di ogni sorta.
Col risultato che, privata di quell’afflato libertario e ribelle che animava (non sempre consapevolmente) le prime due stagioni, questa serie ora appare esattamente per quello che è: un prodotto commerciale buono per la truppa di adolescenti e post adolescenti, smaniosi di comprarsi la maglietta o la felpina del loro personaggio preferito.
Se nelle precedenti puntate, il ventre molle della serie era la sceneggiatura, in questo terzo episodio sono molti gli aspetti che lasciano quanto meno perplessi. Amati e apprezzati nel corso della prima rapina, i personaggi della stagione restano cristallizzati in un clichè dal quale non riescono più a uscire, e risultano privati di ogni ulteriore approfondimento psicologico. Banalizzati nei loro eccessi, addomesticati da una sceneggiatura di routine, reiterano come marionette dialoghi, mosse e mossette, palpiti amorosi e accessi d’ira senza alcuna convinzione, e i nuovi protagonisti, altro non sono che i replicanti di quelli che si sono persi nelle puntate precedenti (Palermo ha l’ingrato compito di vestire i panni del sosia di Berlino, Bogota quello di Mosca).
E’ soprattutto la scrittura, però, a lasciare perplessi. Se quadra che vince non si cambia, perché dover cambiare la trama? Che, infatti, è la stessa delle due stagioni precedenti, arricchita, si fa per dire, da piccole, risibili varianti. In questo contesto, assai artefatto e privo di slanci vitali, salta subito all’occhio una sceneggiatura ai minimi termini e votata all’improbabile: stormi di dirigibili che sorvolano il cielo di Madrid con buona pace dell’aviazione militare iberica, Tokio truccata e pittata a dovere, dopo due anni passati su un’isola deserta, farneticazioni a sfondo sessuale volgari e prive di senso, dialoghi ai limiti dell’imbarazzante, e soprattutto la reiterazione dell’innodica Bella Ciao e di slogan contro il sistema, a cui, ormai, non crede più nessuno.
Di buono, però, c’è una splendida colonna sonora, e quel ritmo adrenalinico (soprattutto negli ultimi episodi) che vi condurrà alla fine della stagione col desiderio di guardare subito quella successiva. Se cercate, però, il graffio del politicamente scorretto e il ringhio contro il sistema, qui non lo troverete: quell’energia è svanita nella seconda stagione, quando è morto Berlino. Lui, si, partigiano immolatosi per la libertà.