Ha un che di paradossale, se non addirittura di involontariamente ironico, la decisione di intitolare un disco La Belle Époque, mentre ci troviamo a vivere un periodo che appare tutto tranne che bello e radioso. A maggior ragione se pensiamo che originariamente l’espressione fu utilizzata per etichettare un periodo che sì, pose le basi per lo scoppio della Prima guerra mondiale, ma fu anche caratterizzato da una crescita e da un benessere generale senza precedenti.
La storia individuale e quella collettiva non sono tuttavia inscindibili, i percorsi intrapresi da ogni singolo essere umano si muovono sulla linea del tempo, ma vivono di traiettorie inaspettate e non per forza simmetriche. Questa è dunque La Belle Époque di Raffaele Quarta, in arte RafQu, che nello scrivere il secondo capitolo del suo progetto LefrasiincompiutediElena ha deciso di raccontare i suoi ultimi dieci anni, che ha dichiarato essere stati per lui un periodo particolarmente significativo.
Si tratta dunque di un lavoro autobiografico, anche se nei vari episodi la narrazione risulta dissolta in favore di istantanee brevi e costantemente mutevoli: nell’impossibilità di ricostruire i singoli avvenimenti e l’intero percorso, si intuisce tuttavia che c’è stata una ricerca, che ci sono stati dei fallimenti, che sono però stati un’occasione preziosa per ripartire con maggiore consapevolezza.
Registrato tra Roma e la provincia di Brindisi, dallo stesso Raffaele coadiuvato da Umberto Giulio Maria Coviello nel lavoro su alcune tracce, il disco contiene sei canzoni, aperte e chiuse da “Mongolfiere”, un interludio strumentale al pianoforte che evoca atmosfere da primo Novecento.
A metà tra cantautorato e Indie Rock, con un livello di scrittura eccellente ed un lavoro di produzione che tende a non sovraccaricare e a valorizzare un lavoro in sede di arrangiamento che mira all’essenziale, La Belle Époque non dice nulla che non sia già stato detto ma lo fa abbastanza bene da non risultare superfluo.
Sei brani, dicevamo, e tutti molto belli e indovinati: a partire da “Moleskine”, cavalcata full band sostenuta da un riff di chitarra ipnotico e da un ritornello coinvolgente (le melodie vocali sono ciò che si nota maggiormente in proposte come questa e bisogna dire che qui funzionano tutte alla grande); “Lucida” è invece una ballata tenuta su da una batteria secca, un piano, un Synth e una chitarra solista che si muove liberamente sullo sfondo. C’è un che di Tiromancino nelle intenzioni generali ed è molto efficace il modo in cui si riempie nel finale, con la chitarra che finalmente balza in primo piano, a svettare sul resto.
Anche “Mirò” è una ballata ma è molto più spoglia, c’è una chitarra, due voci armonizzate e nient’altro, con la melodia che si ripete sempre uguale, con un effetto di piacevole straniamento. È una canzone che parla di ripresa, lasciata però ad un futuro che sembra essere solo ipotetico (“Io non so se il tempo è solo un giardino che non sogno più/come Mirò mi invento un silenzio e aspetto mi porti con sé”).
“Glicine” è invece dotata di maggior groove rispetto agli episodi precedenti, soprattutto per le parti di basso, e a conti fatti risulta essere il brano più elegante del lotto, quello che gode delle soluzioni di scrittura più interessanti.
Molto bella anche “Vacuum”, che si muove nel solco di “Moleskine”, altra canzone molto tesa con un ritornello che espolode, un testo che pare sintetizzare istanze e aspirazioni che hanno portato al disco, con la sua “illusione di una stanza dove tutto va bene”. Difficilmente si tratta di un’opzione possibile e molto probabilmente ne è consapevole anche lui. Sta di fatto che la conclusione è affidata a “Tutte le cose”, tenuta su unicamente da un rarefatto tappeto di Synth: “Dentro la fine si parla di niente ma è la fine la cosa importante”. Anche s poi, capire che cosa sia o come debba essere questa fine, costituisce il lavoro di una vita.
Un viaggio interessante, questo de La Belle Époque. Ripeto, niente di nuovo, ma è sempre bello accorgersi che in Italia ci sono artisti che sanno scrivere così.