È decisamente l'anno del tennis, al cinema.
Strano per uno sport bistrattato, non propriamente facile da seguire e non propriamente cinematografico.
Ma parlare di tennis al cinema, significa parlare anche di ciò che ruota attorno allo sport, focalizzandosi su questo, su altro oltre terra rossa e palline gialle.
Borg McEnroe raccontava una sfida quasi epica tra diversi, una tensione palpabile, un diverso passato e un diverso obiettivo per la vittoria, che significava un sogno.
La battaglia dei sessi va oltre, lasciando quel campo da gioco in un angolo, spingendosi invece su un campo politico che si fa attuale.
Siamo negli anni '70 - sì, gli stessi di Detroit, gli stessi che sono tristemente così simili ai giorni nostri - e le donne vengono sottopagate, vengono bistrattate, vengono relegate in casa, in cucina.
Anche nel tennis.
Vale anche per una campionessa come Billie Jean King, capace di vincere l'impossibile, ma che vale comunque un ottavo rispetto agli uomini.
Siamo negli anni '70 si diceva, gli anni delle rivolte, dei movimenti antirazziali e femministi.
E così Billie Jean non ci sta, esce dalla federazione, ne fonda una sua, tutta al femminile, e parte per un lungo e sfiancante tour.
Non è questo però che ci interessa.
Non è il suo gioco in campo, il suo bisogno di concentrazione, la sfida mentale ad inseguire una vittoria che sembra così facile, viste le sue capacità.
Non ancora, almeno.
Perché il tour serve a noi per inquadrare una società e un mondo misogino, serve a Billie Jean stessa per accettare una realtà non facile da accettare e da divulgare: ama Marilyn, parrucchiera conosciuta per caso, per caso entrata a far parte di questa tournée.
Mentre è impegnata a fare i conti con se stessa e con il suo essere donna, il maschio, scalpita. Vuole dire la sua, vuole farsi valere, e Bobby Riggs cavalca l'onda. Lui, scommettitore incallito, scommette che non esiste tennista donna in grado di batterlo, nonostante la sua forma fisica non certo perfetta, nonostante dal campo manchi da almeno una decina d'anni.
Billie Jean, dopo qualche titubanza, capisce l'importanza di una sfida solo apparentemente impari, l'importanza di una sfida che esce - proprio come il film - dai bordi del campo, e va a toccare l'intera mentalità umana, diventando un Evento.
La battaglia dei sessi si prende qualche libertà, si prende decisamente i suoi tempi prima di farcela vivere questa sfida, mostrandocela in modo sommario, non facendoci palpitare il cuore nemmeno un po' come per Borg o per McEnroe.
Ma per il risultato del film, conta poco.
Perché come detto, conta quello che attorno a quel campo succede, in una storia che sembra essere stata vissuta, e poi scritta, per uscire in un anno in cui di identità, di potere femminile, tanto si parla.
Senza per questo risultare artefatto, costruito, irrispettoso o semplicemente opportunista.
Merito di una Emma Stone che si nasconde dietro a panni timidi ma forti, merito di un giullare come Steve Carell che anche quando vince, o perde, non sa suscitare antipatia, merito di una storia che doveva essere raccontata.
Certo, qualche sforbiciata la si poteva dare, qualche attenzione in più in quel campo in cui la partita della Storia si condensa e poco si spiega a chi il tennis fatica a seguirlo, e decisamente manca il tocco di genio, di diversità e di leggerezza che di solito Jonathan Dayton e Valerie Faris hanno.
Ma tra colori accesi, musiche ben scelte e una ricostruzione ben gestita, e soprattutto attori quanto mai in parte, pure questo tennis, pure questa storia e questa battaglia che - dentro e fuori dal campo - non ha ancora fine, convince.