Quella dell’expatriate è una figura tipica della letteratura inglese, elemento centrale nella narrativa di autori come Henry James, E. M. Forster, Graham Greene, Patricia Highsmith e Lawrence Osbourne. Che si tratti di un lavoratore, uno studente, un artista o una persona che vive di rendita, l’expat è un individuo che ha scelto volontariamente di vivere lontano dal proprio paese natale e che – prima o poi – si ritrova ad affrontare le conseguenze di questa scelta. Ne emerge una figura complessa, sospesa tra il fascino per l’ignoto e la nostalgia delle radici abbandonate ma mai recise. Una dualità che si riflette in modo sorprendente in L.A. Times, decimo album in studio dei Travis.
Dopo aver debuttato nel 1997 con Good Feeling, la band scozzese ha raggiunto il successo due anni dopo con l’album The Man Who, trainato dal singolo “Why Does It Always Rain on Me?”. Ma è con The Invisible Band del 2001 che i Travis diventano un punto di riferimento per un’intera generazione di nuovi gruppi (Coldplay, Keane, Snow Patrol, The Killers, solo per nominarne alcuni), entrando nelle grazie di un gigante come Paul McCartney (che una decina di anni dopo sarà ospite di Fran Healy nel suo disco solista Wreckorder) grazie a un singolo come “Sing”.
Da lì in poi, nonostante gli alti e i bassi connaturati in una carriera lunga ormai quasi trent'anni, i Travis sono rimasti un punto fermo nel Regno Unito, entrando in Top Five con album come 12 Memories (2003), The Boy with No Name (2007) e Where You Stand (2013), con il quale sono tornati discograficamente attivi dopo qualche anno passato lontano dai riflettori. Ripreso a pubblicare con regolarità con Everything at Once (2016), nel 2020 i Travis hanno celebrato il loro quarto decennio insieme con l’album 10 Songs, il primo scritto interamente da Healy dai tempi di 12 Memories, cosa che è accaduta anche per il suo seguito, il nuovo L.A. Times, definito dal leader della band di Glasgow come "l’album più personale del gruppo dai tempi di The Man Who".
Il paragone di Healy con il disco di debutto, però, non si basa sulla musica, ma sulle emozioni veicolate. In L.A. Times, infatti, i Travis non cercano di far rivivere la rabbia e l’ambizione giovanile che li ha alimentati in passato, ma testano piuttosto i confini creativi della mezza età, riflettendo sullo stato di un mondo in costante tumulto. Ecco quindi spiegato il divertente e azzeccato gioco di parole che si cela dietro il titolo, che da un lato richiama il celebre quotidiano Los Angeles Times e dall’altro circoscrive nel tempo e nello spazio le canzoni contenute nell’album, che vanno a formare una serie di riflessioni sullo stato di salute del pianeta Terra e degli esseri umani che lo popolano nei primi due decenni del XXI secolo.
Healy ha scritto le canzoni di L.A. Times nel suo studio alla periferia di Skid Row, uno dei quartieri ritenuti più pericolosi di Los Angeles, un luogo che incarna perfettamente il conflitto tra bellezza e degrado che permea l’album. La band – che oltre a Fran Healy include il chitarrista Andy Dunlod, il bassista Dougie Payne e il batterista Neil Primrose – si è poi rivolta a Tony Hoffer, veterano produttore di stanza a Los Angeles, già collaboratore di Beck, Phoenix e Belle and Sebastian. Hoffer ha contribuito a lucidare i brani, conferendo all’album una produzione che espande la tavolozza sonora dei Travis senza tradire la loro identità.
Il risultato – che si può ascoltare confrontando i demo presenti nel secondo disco dell'edizione deluxe dell'album con il prodotto finito – è un lavoro che si inserisce perfettamente all’interno della discografia della band di Glasgow, ma allo stesso tempo è anche la cosa più diversa e radicale prodotta finora dal quartetto. Insomma, L.A. Times è il classico lavoro di un expat, in precario equilibrio tra il desiderio di raggiungere l’ignoto e la necessità di trovare conforto nel familiare, tra modernità e tradizione.
Per quanto riguarda la scrittura, ci troviamo di fronte a un artigianato pop di altissima fattura; definizione, questa, magari abusata, ma assolutamente pertinente quando si parla di una penna come quella di Fran Healy. Spesso e volentieri le canzoni si riducono a poco più di un dialogo tra la chitarra e la voce, come nel caso della beatlesiana “Live It All Again”, una composizione così esile che sembra possa ripiegarsi su se stessa da un momento all’altro.
Allo stesso tempo, un brano come la sbarazzina “Gaslight” riallaccia un legame con il Britpop che si pensava sepolto, mentre “Alive” è forse la canzone di L.A. Times che più si avvicina a quelle che resero i Travis delle star internazionali sul finire degli anni Novanta. E se “Bus” è un gioiellino costruito per sottrazione con una capacità di scrittura che è solo del leader dei Travis e di pochi altri, in “Raze the Bar” ai cori troviamo Chris Martin dei Coldplay e Brandon Flowers dei The Killers, venuti a rendere omaggio al maestro Healy.
Nonostante i 32 minuti, non sarebbe un disco dei Travis se non ci fossero un paio di filler – “Home” non è riuscitissima e “I Hope That You Spontaneously Combust” ricorda un po' troppo il Beck anni Novanta –, ma ci pensano due pezzi d'alta scuola come “Naked in New York City” e “The River” (la canzone che vorremmo che un gruppo come gli U2 fosse ancora capace di scrivere) a riportare tutto sulla retta via. Il disco si chiude con il recitar cantato della title track, una brano che non nasconde l'ambizione di voler in qualche modo incarnare l’essenza dell’America e della California meridionale in particolare. È un interessante patchwork di stili e idee, realizzato attraverso la prospettiva di un expat allo stesso tempo affascinato e sconcertato dal luogo che ha scelto come sua nuova casa.
Insomma, L.A. Times non è solo un album; è un viaggio emotivo e artistico, una riflessione sul tempo e lo spazio, sull’identità e l’esplorazione. È un’opera che invita l’ascoltatore a scoprire, sotto le melodie accattivanti di Fran Healy e la produzione moderna di Tony Hoffer, un mondo di significati e risonanze emotive che solo una persona che si trova volontariamente lontana da casa e possiede pertanto una doppia prospettiva può cogliere appieno.