L’esordio di Gaube, indipendentemente da come verrà poi valutato, presenta due motivi di interesse: il primo è che si tratta di un lavoro fortemente ispirato agli anni ’70; nell’estetica, nell’approccio operativo e nelle influenze messe in campo; il secondo sta nel fatto che vuole essere, e senza dubbio ci riesce, un lavoro politico. Ora, che un ragazzo di 27 anni possa ispirarsi a musica datata per scrivere le proprie canzoni, non è una novità: anche in un paese come il nostro, quasi totalmente privo di coscienza storica e molto più appiattito sul presente rispetto ai nostri vicini europei, siamo pieni di artisti che guardano al passato e che hanno fatto della libertà di sperimentazione il loro credo maggiore: gente come Andrea Laszlo De Simone, Lucio Corsi, Iosonouncane, Andreotti, in parte anche Battista e Visconti; tutti devoti ad Anima Latina e ad una liberazione dalla forma canzone tipica di un certo Prog Rock, genere che peraltro siamo stati in grado di esprimere parecchio bene anche noi.
Quindi, fin qui, niente di strano, non sta scritto da nessuna parte che se sei un giovane musicista in Italia o fai Rap o fai It Pop.
La novità, semmai, sta nella dimensione politica. Non capita proprio così spesso che un nato nel 1996 dichiari, presentando il suo disco alla stampa, che: “L’arte deve tornare a farsi politica e per farlo deve necessariamente legarsi alle grandi questioni del presente”.
Perché diciamolo chiaramente: gli artisti italiani sono innanzitutto cittadini italiani e in Italia, la politica, non se la fila più nessuno. Prima è caduto il muro di Berlino, con la conseguente fine delle ideologie, poi c’è stata Tangentopoli, che ha svolto un ruolo non da poco nello screditare tutto un sistema e una classe dirigente; poi abbiamo avuto il cosiddetto “Berlusconismo”, che ha reso più superficiale il dibattito e ha nel contempo polarizzato la discussione, offrendo alle opposizioni appigli sin troppo facili per appiattirsi su slogan e proposte demagogiche, invece di portare avanti un progetto articolato e razionale. Metteteci il neoliberismo, o quello che oggi si preferisce chiamare “Post capitalismo” e avremo forse un quadro preciso del perché le giovani generazioni di musicisti preferiscano affrontare argomenti più leggeri e disincantati, oppure concentrarsi unicamente sulla dimensione istintiva e sentimentale della propria interiorità.
Lorenzo Cantini (il nome Gaube l’ha preso dalla nonna materna), probabilmente per estrazione famigliare, probabilmente per il luogo in cui è cresciuto (una Toscana da sempre sensibile ad un certo discorso) e per quello dove vive ora (Bologna, città “rossa” e impegnata per eccellenza), ha deciso di allargare l’orizzonte e di provare ad esplorare quel “politico” che, negli anni che ha scelto come riferimento, era considerato (per un eccessivo irrigidimento ideologico) in radicale opposizione al “privato”.
Kulbars, termine già di per sé indicativo di un certo tipo di immaginario (i kolbar sono lavoratori che trasportano merci tra Iran, Iraq, Siria e Turchia) arriva dopo l’EP Confini, la cui title track è stata inclusa nel disco, ed un lavoro che mette in mostra personalità e idee chiare, cosa certamente non comune in un autore così giovane. C’è una vera e propria band di sette elementi (oltre a Lorenzo, che ha suonato chitarre, pianoforte, mellotron e omnichord, ci sono anche Davide Sorresina a batteria e percussioni, Lorenzo Chiariello a basso e sintetizzatore, Emilio Valentino alla chitarra, Francesco Cerasi a pianoforte e organo elettrico, Amedeo Monda alla chitarra classica e Alessandro Citterio al sintetizzatore) che ha registrato quasi tutto in presa diretta, esattamente come si era soliti fare nel decennio a cui Lorenzo guarda maggiormente.
Difficile trovare definizioni precise per queste canzoni: la struttura è sempre piuttosto libera, senza la classica alternanza strofa-ritornello, e vive per lo più di interazioni tra le linee vocali e le parti strumentali, che non sono mai particolarmente lunghe e complesse, ma che si prendono il loro spazio svolazzando con noncurante leggerezza. La dimensione Prog non è dunque tanto nelle divagazioni intricate e nello sviluppo dilatato dei brani, quanto in quello spirito di libertà che pervade la scrittura, quell’accostare elementi diversi con naturale spontaneità e in quel lasciarsi andare del Synth e del Mellotron ad evocare melodie che citano ora la PFM, ora i primi King Crimson. C’è ovviamente tanto Battisti (Anima Latina senza dubbio ma lo si sente anche in un certo modo di costruire i brani) ma il riferimento più immediato è Iosonouncane, in particolare quello di Die: l’artista sardo è un termine di paragone nella maggioranza delle parti vocali, nell’intenzione generale del cantato, roco e spesso cupo, come se avesse dentro una rabbia che a stento si riesce a liberare; lo si avverte anche nell’uso dell’elettronica o in certe progressioni melodiche, in generale è evidente che Lorenzo guardi soprattutto in quella direzione, pur nel tentativo, a tratti riuscito, di dare alla propria scrittura una connotazione personale.
Di suo ci sono i testi: Kulbars non è un concept album nel senso classico del termine, ma a partire dalle suggestioni del titolo (la title track funge anche da brano di apertura) sviluppa un unico itinerario che va dalle ragioni degli ultimi, portando avanti un discorso che potrebbe essere quasi definito marxista, fino ad approdare ad una dimensione più ampia, fatto di migrazioni e frontiere, nuove aspirazioni che si scontrano in continuazione con sempiterni muri, siano essi fisici o ideologici. Sono comunque testi che, per quanto “impegnati” e a tratti caustici, si costruiscono attraverso strutture che sono più impressionistiche che narrative (un altro campo dove l’influenza di Jacopo Incani risulta evidente) e come tali si possono prestare a molteplici interpretazioni.
Nell’insieme è tutto molto convincente, anche se a tratti affiora una certa dose di ripetitività in sede di scrittura, complice anche un cantato alla lunga un po’ troppo monocorde e in possesso di poche soluzioni. Meglio dunque quando le sezioni strumentali osano maggiormente e si concedono qualche divagazione in più, come ad esempio nelle due parti di “Sangue” o in “Muro”, mentre la conclusiva “La crepa, il declino”, musicalmente più distesa, appare in parziale discontinuità con le altre e potrebbe quindi far intravedere futuri nuovi itinerari.
Un esordio coi fiocchi, anche a livello di contenuti testuali. La dimostrazione che il passato può essere rielaborato in maniera interessante e che la dimensione politica può ancora entrare nelle canzoni, a patto che non sia irrigidita dall’ideologia.