Non dev’essere tanto facile fissare il mondo di oggi con gli occhi di uno che ha fatto un viaggio nel tempo. Non dev’essere facile sentirsi come uno che è stato catapultato dagli anni ‘70 ai giorni nostri e vedere quanto siano ancora roventi quelle tensioni che pensava appartenessero ad un’altra epoca. Non dev’essere facile vestire i panni di Michael Kiwanuka: quelli di un ragazzo che ha imparato ad accettare prima se stesso che gli altri, uno che di battaglie interiori ne ha dovute affrontare diverse e che con l’involucro dell’identità ha dovuto farci i conti.
I suoi occhi fissano la contemporaneità con sbigottimento ma non con immobilismo; mostra tutta la voglia di lottare e di quanto lo abbia fatto in passato. E con le spalle appesantite da uno zaino ricolmo di vinili di Otis Redding, Marvin Gaye, Curtis Mayfield e Gil Scott-Heron, il musicista ugando-londinese riesce nell’impresa di regalarci il suo sguardo, il suo filtro. Ci sono nuove sfide da affrontare, con mezzi e contro avversari profondamente diversi da quelli che ha conosciuto.
Era partito per questo viaggio nel 2016, con “Love & Hate”, da lui stesso definito come un disco terapeutico, sulla ricerca di identità e in cui era riuscito a sfiorare vette altissime.
Ora che quella crisi identitaria pare essersi risolta, ecco che arriva la conferma: “KIWANUKA” è una dichiarazione e, al tempo stesso, una confidenza.
Il verso “No need to play myself” di “You Ain’t the Problem” rappresenta il primo segnale distensivo e di raggiunta pace interiore nonostante gli eterni dubbi e le continue sollecitazioni anche politiche. Kiwanuka offre sempre un punto di osservazione ad altitudini elevate, dove poter spaziare liberamente e velocemente da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra.
“Living in Denial” (“Ti stai davvero arrendendo? Non ti fermerai adesso?”) conferma quella perentoria volontà di non farsi paralizzare dalle insicurezze e che la rincorsa verso un’identità non è irrealizzabile se passa da un’accettazione (auto-accettazione) che, forse, nei capitoli precedenti non era disposto a considerare.
Kiwanuka non deve scegliere tra l’Uganda e l’Inghilterra, tra i genitori scappati dalla guerra civile e quel quartiere difficile e troppo bianco di Muswell Hill. Ha imparato a farle convivere, senza badare a quale predominasse, commutandole in ricchezza: “non cambierò il mio nome, indipendentemente da come mi chiamano”. “Hero” è sofferenza, soprattutto verso i pregiudizi: l’uccisione di Fred Hampton, pantera nera assassinata dalla polizia nel 1969.
“Another Human Being” si apre con il velenoso annuncio di un giornalista: “per la prima volta la comunità si è trovata di fronte a negri in luoghi in cui non sono mai stati”. Efficace interludio di un brano che mette a nudo le congiunture tra passato e presente. Ed è in questa oscillazione perpetua che fa capolino Kiwanuka che agguanta il classico e lo riversa nel futuro. Dalle folate di Hammond ai pianoforti, passando per chitarre e arpe, si volge verso i synth luminosi di “Hard To Say Goodbye” e gli archi di “Light”.
“KIWANUKA” è un manifesto di perfette compenetrazioni, un melting pot di jazz, afrobeat, soul e funk, in cui le sapienti mani di Danger Mouse e Inflo alla produzione fanno il resto, consegnandoci uno di quelli che potremmo candidamente collocare tra i dischi dell’anno.