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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
04/12/2017
Pink Fairies
Kings of Oblivion
Tracce folgoranti di tre minuti si alternano ad estesissime jam basate su riff semplici e coinvolgenti, prive delle pulsioni galattiche dei fratelli Hawkwind; New York Dolls uniti alla ritmica e ad una vocalità curiosamente ispirate agli Who delle Rock Opera...

Il chitarrista vagabondo Larry Wallis è uno degli eroi sconosciuti del più viscerale Rock Britannico degli anni settanta. Già amico di lunga data di una leggenda come Steve Took (Tyrannosaurus Rex) nonché del pericoloso terrorista psichedelico Mick Farren (Deviants), prestò la sua infuriata chitarra a Shagrat e Blodwyn Pig, fu nel 1971 in una precoce incarnazione degli UFO, dopo il siluramento del visionario Mick Bolton, e nel 1975 si unì ad un altro reietto eroinomane, esule della Nave Madre degli Hawkwind, tale Ian  Kilmister, per formare un trio assai trash dal nome Motörhead.

Ma prima di questa ennesima (breve) avventura, fece a tempo a rimpiazzare il canadese Paul Rudolph nei Pink Fairies, paladini degli spiantati squatter di Ladbroke Grove, in tempo per il loro terzo album e terzo cambio di formazione e stile: dallo space-freak di Never Never Land, alla guerriglia urbana di What a Bunch of Sweeties, fino a questo Kings of Oblivion, sfavillante e assai più radio-friendly dei precedenti.

I Faries venivano da un 45 inciso con Mick Wayne, chitarrista di passaggio, che aveva portato in studio un boogie sudista dal titolo “Well, Well, Well”, non esattamente nelle corde dei membri storici del gruppo, Duncan Sanderson e Russell Hunter che pure con Rudolph avevano inciso la migliore versione in circolazione della famigerata “Goin' Down” di Don Nix. Ma il rimedio è dietro l’angolo poiché la sezione ritmica collaudatissima e potente della ditta Sanderson & Hunter, unita alla sfrontata freschezza di Wallis, produce un terzetto di rocker formalmente impeccabili: stivaletti di serpente, giacche di pelle, lunghissimi capelli crespi e perenni occhiali scuri; trasudano testosterone, power-chord e  adrenalina da ogni poro. Larry scrive da sé quasi tutto un LP in equilibrio precario tra accelerazioni hard e tentazione di travestitismo glam: è il 1973 e siamo al crocevia di mille generi e altrettante decadenze.

Tracce folgoranti di tre minuti si alternano ad estesissime jam basate su riff semplici e coinvolgenti, prive delle pulsioni galattiche dei fratelli Hawkwind; New York Dolls uniti alla ritmica e ad una vocalità curiosamente ispirate agli Who delle Rock Opera, ma anche sani isterismi proto punk che il gruppo aveva nel DNA dal tempo di Do it! e che allo stesso modo ispireranno i suddetti Motörhead. Dentro una simpatica copertina con un cielo azzurro in cui volano tre maialini alati, la musica freme ed esplode già da “City Kids”, uno speed rock senza alcun fronzolo e anzi con un assolo fantastico, lineare, velocissimo, con un tiro pazzesco: il migliore del 1973? Questa stessa canzone ricomparirà un anno più tardi sul “teorico” esordio dei Motörhead, On Parole, serbato in realtà dalla United Artist come un segreto da non divulgare.

Dallo stesso stampo anche “Chromium Plating”, furibondo monologo del chitarrista su effetti sfolgoranti e più atmosferici, con californiane incursioni del vibrato acuto della chitarra. Ancora meglio “Raceway”, modulazione sullo stesso riff di “City Kids”, strumentale per sbaglio, in quanto Wallis aveva pronta la linea vocale che non fece a tempo a incidere: così resta una specie di heavy-surf che starebbe bene come colonna sonora di qualche inseguimento automobilistico di Starsky & Hutch. La quarta traccia “breve” è “Chambermaid”, tre minuti di hard n’ roll in perfetta linea coi tempi.

Sul versante brani “estesi” bisogna pur ammettere che le canzoni per quanto lunghe non annoiano del tutto né sconfinano in soliloqui né nei noiosissimi assoli di batteria alquanto comuni all’epoca. “I Wish I Was A Girl”, inno esplicito al travestitismo di tanto omo-rock Britannico, troneggia su tutto il resto con quasi dieci minuti retti, oltre che sulla maestria di Wallis, su uno spettacolare giro di basso di Sanderson: pulito, rotondo, simmetrico, perfettamente power-pop; lo si ascolterebbe per ore e da solo vale il prezzo del disco. “When's The Fun Begin”, firmata da Mick Farren oltre che da Wallis, è un’ouverture che pare una costola di Tommy persa a tratti negli atmosferici territori dei primi Rush. “Street Urchin” chiude il disco sotto i colpi della batteria di Hunter, e si concede a qualche passaggio funkeggiante nei riff percussivi di chitarra.

Sette tracce, un album, circa un anno di lavoro. La sintesi dell’avventura di Larry Wallis con i Pink Faires è questa. Un rock positivista, tutto divertimento, giovanile ma non piattamente banale, fatto da vecchie volpi del sottobosco ma con il solo difetto di mancare di un vocalist vero, che avrebbe potuto proiettare tracce come “City Kid”s o “Chambermaid” - perché no? - ai vertici delle classifiche.