Uscita da sottolineare quella di King Phoenix dei The Jazz Defenders, ad un paio d’anni dal precedente Scheming. La pluricitata distanza pandemica ha gettato nuova linfa sul progetto, tanto che oltre al solito jazz funk ben scritto, in cui il suono e la composizione la fanno da padrone tra wurlitzer/hammond, intrecci di fiati e fusti che si amalgamano con la ritmica contrabbassistica (“Wagger Jaunt”, “Munch”), emergono anche spunti decisamente più cinematografici e citazionistici (“The Oracle” in un senso più western e “Perfectly Imperfect” che cita lo spy messo a punto con la trilogia degli Ocean’s movies a inizio Duemila).
Il sound dei The Jazz Defenders è sorprendente e camaleontico tanto riesce a spaziare da un luogo all’altro.
Il territorio latin emerge prepotentemente con “Saudade” dove il contrabbasso ed il bordo del rullante, estremità mosse di una continua sezioni di archi, delimitano gli spazi ad un pianoforte sempre sul punto di prendere in mano il pezzo ed il flauto traverso così semplice, geografico ed evocativo. Stessa cosa accade con la saltellante “Love’s Vestige” dove il posto degli archi viene preso da dei fiati che portano alla mente il meraviglioso manifesto Afro Cuban di Kenny Dorham. Ed infatti ciò che succede nel mezzo è fantastico e supera la semplice ispirazione, basti pensare al bel momento solistico della batteria, in perfetto equilibrio tra il trascinante e l’ispirato.
Difficile poi non sottolineare l’hip hop della succitata “Perfectly Imperfect”, in cui emerge un bellissimo momento solistico di un piano alla continua ricerca di se stesso, oltre ad un rap vocale ritmicamente incastrato fra dei terzinati che richiamano un Zack De La Rocha ripulito dalla propria rabbia ed un ritornello pop al limite del melenso con la citazione del titolo della canzone. E chiaramente c’è anche il jazz più puro, pianistico e di classe come quello di “Twilight” e “From the Ashes”.
La chiusura è affidata a “Live Slow” (feat Herbal T.) in cui passiamo da un intro caratterizzato da un tempo molto ispirato dal mondo di Pastorius (e vengono in mente la famosa “The Chicken” per il tema di fiati ma anche la meno conosciuta “Amelia” per l’intreccio ritmico che sostiene il brano). Tutto ciò intorno ad un vocale rap in pieno stile Eminem forse neanche totalmente centrato come mood e convinzione.
Meglio l’uscita strumentale dal cantato che riprende le redini delle emozioni del brano e lo avvia verso una conclusione almeno interessante.
Ciò che emerge, oltre ad una scrittura ed un arrangiamento non banali, è la già sottolineata capacità di cambiare vesti con una naturalezza che fa avvertire la sensazione del disco nel disco, come in realtà capita spesso di sentire in molti lavori di jazz più attuale, cosa che in un senso concettuale non mi fa esattamente impazzire.
Un ascolto positivo, di musicisti in pieno possesso del suono, davvero ben riprodotto. Un album che a prescindere dall’assenza della spinta miracolosa si lascia ascoltare con piacere.