Può apparire strano che Kim Gordon, dopo lo scioglimento dei Sonic Youth, abbia atteso dieci anni prima di lanciarsi in una vera e propria carriera solista. Eppure, se paragonata con quelle (di ben più ingenti dimensioni e longevità) dei suoi ex colleghi Thurston Moore e Lee Ranaldo, questa sua personale avventura è forse in più stretta continuità con lo spirito originario dell’act newyorchese.
Se esso va infatti ritrovato nell’incessante apertura alla sperimentazione e nella curiosità costante verso nuovi suoni, allora si può dire che la bassista abbia seguito la lezione alla lettera. Tanti progetti, dai Body/Head con Alex Knost e il produttore Bill Nace, fino a SYR5, Ikue Mori e Dj Olive; un lavoro a metà tra un disco dei Sonic Youth ed una collaborazione con artisti esterni, che a livello di sonorità ha probabilmente offerto un assist interessante per il sodalizio con Justin Raisen, alla base di No Home Record.
The Collective, arrivato cinque anni dopo, rappresenta un notevole passo avanti, a partire dal modo in cui fa a pezzi la forma canzone e gioca con sample e campionamenti vari, realizzando un quadro visionario che si muove tra l’Hip Hop del periodo 80-90 e l’Industrial più crudo e abrasivo, del tutto in linea con la distopia de La casa di marzapane, il romanzo di Jennifer Egan, che ha avuto un ruolo non da poco nell’ispirare il concept generale del lavoro. Che a 70 anni ci si metta in gioco così non è affatto banale, e probabilmente non è che un’ulteriore conferma di quanto il fenomeno Sonic Youth abbia rappresentato un caso più unico che raro nella storia della musica.
L’Alcatraz, seppure nel suo allestimento a capienza ridotta, risulta bello pieno quando arrivo sul posto, coi presenti intrattenuti a dovere dalla producer polacca Zamilska, autrice di una Techno che denota più di un tratto di continuità con la proposta dell’headliner.
Kim Gordon e la sua band arrivano alle 22.00 spaccate, preceduti da una lunga intro con materiale visivo di diversa provenienza, da location esterne ad immagini del gruppo in sala prove (che saranno una costante anche durante l’intera durata del concerto).
Si parte con “Bye Bye”, che apre il nuovo album e che lei stessa ha dichiarato essere la traccia più rappresentativa del suo contenuto. La formazione che la accompagna (Sarah Register alla chitarra, Camilla Charlesworth al basso, Madi Vogt alla batteria) garantisce un approccio più “analogico” a buona parte del materiale, ed è di per sé significativo che questo primo brano sia stato riarrangiato con una preponderanza maggiore di chitarre (la stessa Kim ne imbraccia una). Questo nuovo vestito delle composizioni lo abbiamo notato sopratutto nell’accoppiata “Cigarette”/“Shelf Warmer”, preceduta da un interessante lavoro di improvvisazione in crescendo, che è stata, nell’arco della serata, la cosa più simile a quel che la sua band madre faceva sul palco.
Altrove, invece, gli episodi di The Collective (cito ad esempio “The Candy House”, “I’m a Man”, “Trophies” e “Dream Dollar”) hanno mantenuto tutto il loro spirito elettronico, con Gordon che ha abbandonato la chitarra per limitarsi a cantare, e con le consolle che hanno sostituito rapidamente gli strumenti (unica eccezione, la batteria di un’ottima Madi Vogt, che ha preservato almeno un po’ del “calore” di questi brani).
Non è un set facile, perché i pezzi sono spesso monocorde e la voce si adatta ad essi, più salmodiata che cantata (c’è anche spesso la tendenza a seguire il beat, in una voluta analogia con l’hip hop). Spicca su tutto la forma strepitosa dell’autrice, che ha 71 ma ne dimostra venti di meno, sia per l’aspetto fisico sia per l’agilità e la disinvoltura con cui si muove sul palco.
Notevoli anche le esecuzioni da No Home Record, tra cui vanno segnalate una “Air BnB” dallo spirito Punk (è anche l’unica dotata di un vero e proprio ritornello) ed una “Paprika Pony” dall’incedere scuro e pesante.
Chiude il tutto “Grass Jeans”, singolo del 2021, decisamente lontano dal materiale dei due dischi: un assalto frontale in piena regola, con un lavoro di chitarra superbo, un’evocazione neanche troppo velata dei Sonic Youth di cui, giustamente, non è stato proposto nessun pezzo. Eppure, in questo finale, i segni dell’antica fiamma si riconoscono, lasciando forse aperto lo spiraglio per una futura reunion (forse è sperare troppo ma loro stessi non hanno mai opposto veti decisi a questa possibilità).
Concerto bellissimo, che conferma Kim Gordon come un’artista di statura enorme, anche solo, lo ripetiamo, per avere voglia di mettersi in gioco in questo modo, quando molti dei suoi coetanei non fanno altro che ripetere all’eccesso la medesima formula.