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REVIEWSLE RECENSIONI
18/04/2018
Spiders
Killer Machine
Canzoni che non ci chiedono nulla in cambio, se non la voglia di imbracciare una air guitar, cantare a squarciagola e abbandonarci al sacro rito dell’headbagging. Alla fine, il senso del rock’n’roll non è proprio questo?

Citazionisti, passatisti, totalmente privi di quell’hype malinconico e stiloso che piace tanto ai recensori indie, semplici, diretti, lontani anni luce da ogni tipo di tentazione elettronica o intenti sperimentali, e pure banali, perché no. Questi sono gli Spiders, band svedese, originaria di Goteborg, che ritorna sulle scene con un nuovo album dopo Shake Electric, pubblicato nel 2014.

Li abbiamo presentati con tutti quegli evidenti difetti che di sicuro verrebbero messi all’indice da chi è abituato a definire questa musica scontata e puerile. Ben vengano, allora, le eventuali critiche e, francamente, chi se ne fotte. Per ascoltare (e recensire) un disco degli Spiders non sono necessari complicati esercizi onanistici: bisogna solo avere voglia di divertirsi, di ballare e di sudare finché si ha birra in corpo (e intendo letteralmente).

Perché queste canzoni, risapute e derivative quanto vuoi, hanno un tiro e una freschezza che stende. Accendono la festa e ti strattonano a forza dal tuo angolino, dove sei seduto a sorseggiare chinotto da una cannuccia, spingendoti verso l’occhio del ciclone pogo e costringendoti a scatenarti come un derviscio in preda ai fumi alcolici.

In termini di muscoli, infatti, Killer Machine raccoglie tutto lo scibile umano: hard rock anni ’70, chitarroni nineties, anfetaminico garage punk, e poi Joan Jett, Motorhead, Guano Apes, T-Rex e un centinaio di altre band, che messe tutte in fila esaurirebbero lo spazio destinato all’articolo. La scaletta, però, è confezionata con la carta da pacco glitterata e variopinta di melodie uncinanti, e infiocchettata da un’estetica sexy glam molto eccitante. A condurre le danze, la bella voce di Anne Sofie Hoyles e la chitarra del fratello John, che dispensa assoli fulminanti e riff assassini, sostenuto dalla martellante sezione ritmica composta da Olle Griphammar (basso) e Ricard Harryson (batteria).

Si parte a cento all’ora con Shock And Awe, garage punk rapido come un serramanico, che stupisce per la capacità di bilanciare in tre minuti graffi ripetuti e melodia di facilissima presa. Risultato che si ripete nella fantastica Dead Or Alive, singolo dal ritornello contagioso ai limiti dell’epidemia. Non c’è un filler in scaletta e tutto scorre rapido e divertentissimo sino alla fine, tra punk rock irretito da ritmiche dance (Like A Wild Child e Higher Spirits richiamano alla mente la sensualità dei Blondie), ballate seventies attraversate da ruvida malinconia (Don’t Need You) e derapate anfetaminiche benedette da San Lemmy, che guarda di lassù compiaciuto.

Tutto prevedibile? Certo. La musica, però, è fatta di grandi canzoni e qui ce ne sono tante, tutte direi. Canzoni che guardano al passato, ma hanno i piedi ben piantati nel presente, e che non ci chiedono nulla in cambio, se non la voglia di imbracciare una air guitar, cantare a squarciagola e abbandonarci al sacro rito dell’headbagging. Alla fine, il senso del rock’n’roll non è proprio questo?