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REVIEWSLE RECENSIONI
17/04/2021
Noga Erez
Kids
“Kids”, come dice il titolo, è un disco che parla di figli e genitori, più incentrato sui rapporti personali che su quelli politici e vede addirittura la partecipazione della madre, Yehudit, nell’intro e in un altro paio di brani. D’altronde lo dice lei stessa, che un’ipotetica uscita dalla cosiddetta “questione palestinese” si avrà solo rinsaldando l’unità della famiglia e che “è il modo con cui cresceremo i nostri figli, che potrà veramente cambiare il mondo”.

Nel 2017 si era fatta notare con “Dance While You Shoot”, singolo tanto azzeccato quanto provocante, che se sei una ragazza di ventisei anni nata e cresciuta a Tel Aviv, assume un significato decisamente non metaforico.

“Off the Radar” è stato il disco che ha rivelato al mondo il talento di Noga Erez al di là di quel primo singolo, voce interessante, personalità forte e una scrittura costantemente in bilico tra Hip Pop, Dance e sperimentazione elettronica.

Sono passati quattro anni, ci sono state le lodi della critica, un lungo tour con tanto di partecipazione in alcuni Festival importanti (avrei voluto vederla al Primavera nel 2018 ma c’erano troppe sovrapposizioni e le ho preferito non ricordo più chi), una crescita maggiore di consapevolezza, sia a livello artistico sia sul come spendere il proprio ruolo pubblico in un paese che definire complicato sarebbe un eufemismo.

“Kids” è il suo nuovo album ed è arrivato dopo una marcia progressiva di avvicinamento fatta di singoli, relativi video e un divertente format chiamato “Kids against the machine”, in cui Noga, i suoi collaboratori e qualche ospite, rileggevano dal vivo qualche brano nuovo in location improbabili, senza l’ausilio di overdub e strumentazione elettronica. Un esperimento interessante, che ha mostrato l’anima autentica di quelle canzoni, spogliate da ogni orpello e quindi in qualche modo rese più vere.

Il disco si avvale ancora una volta del lavoro di arrangiamento e produzione di Ori Rousso, che qui ci mette la faccia in maniera più decisa, firmando i feat di due brani (“Views” e “Story”) e apparendo nei relativi video. L’artista, anche lui israeliano, collabora ai brani della Erez sin dagli inizi (“Senza di lui le mie canzoni semplicemente non esisterebbero”) ed è legato a lei anche nella vita; ma sarebbe sbagliato sottovalutare il ruolo di Jacobovitz Ran, batterista e percussionista di grande talento, il cui lavoro in questi nuovi brani è particolarmente importante.

“Kids” appare in effetti come la perfetta sintesi del contributo dei tre e risulta nel complesso più decifrabile del suo predecessore: se infatti “Off The Radar” mescolava stili e approcci diversi e aveva accanto a singoli di sicuro impatto (la già citata “Dance While You Shoot” ne è un perfetto esempio ma anche “Toy” diceva la sua) episodi più interlocutori, questo sophomore abbandona per strada una buona dose di cupezza e costruisce canzoni più ariose, spesso incentrate sull’elemento percussivo, tra ritornelli catchy e ritmi ballabili.

Se bastano questi ingredienti per definire “Kids” un disco più “facile”, allora ci teniamo la definizione. È come se, dopo avere inserito nel suo debutto tutte le influenze da cui si era in qualche modo abbeverata, qui avesse in qualche modo scelto di privilegiare il movimento e la voglia di divertirsi, interiorizzata sin da quando, bambina, prendeva lezioni di danza e poi, adolescente, entrava nelle sue prime band, all’interno della movimentata scena Indie Punk nella Tel Aviv dei primi anni Duemila.

La naturale conseguenza di questa scelta è che il disco, da qualunque angolatura lo si guardi, appare come una lunga collezione di hit, che ha senza dubbio nei singoli la sua maggiore forza propulsiva (in particolare due Upbeat come End of the Road” e “Story”, che accentuano oltretutto la componente Hip Pop) ma che vive di altri momenti irresistibili, come ad esempio “Fire Kites” e “Bark Loud”, decisamente esplosive, oppure “You So Done”, più riconducibile al primo lavoro e molto efficace col suo tema centrale di fiati campionati. Interessante anche il tentativo di inserire elementi arabeggianti nelle melodie, sia nella title track sia in “Candyman”, che è l’episodio che si discosta maggiormente dall’orientamento generale. E poi “Switch Me Off”, che chiude il tutto in maniera inaspettata, una ballata minimale negli arrangiamenti ed un finale dal retrogusto fifties, con tanto di orchestrazioni.

Anche dal punto di vista narrativo c’è stata una mutazione: “Kids” non rinuncia al tema politico e proprio nella title track, oltre ai versi eloquenti “Peace is dead now/Rest in peace” compare un riferimento alla Guerra dei sei giorni oltre ad un’esplicita condanna della condotta politica del suo paese sotto il governo Netanyahu. Nel complesso però, questo non è un disco che si possa dire “militante” e neppure un lavoro strettamente impegnato. Da sempre esplicita sulla questione palestinese, tanto da essere stata contestata in passato dal Ministero della Cultura per le sue prese di posizione, ha deciso però di affrontare certi temi in sedi diverse dai testi delle canzoni.

“Kids”, come dice il titolo, è un disco che parla di figli e genitori, più incentrato sui rapporti personali che su quelli politici e vede addirittura la partecipazione della madre, Yehudit, nell’intro e in un altro paio di brani. D’altronde lo dice lei stessa, che un’ipotetica uscita dalla cosiddetta “questione palestinese” si avrà solo rinsaldando l’unità della famiglia e che “è il modo con cui cresceremo i nostri figli, che potrà veramente cambiare il mondo”.

Allora forse anche questo è un disco politico, in maniera decisamente più vera, però. C’era una data italiana in programma, a Torino. Quando tutto questo sarà finito, se mai finirà, sarà bellissimo ritrovarci sotto il palco a cantare queste canzoni. Fino a quel momento, credo che ballarle in casa propria non sia proibito.


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