Il pop, il genere che più di ogni altro trascende le epoche storiche, da sempre lo si produce seguendo le linee guida stilistiche ed estetiche che vanno per la maggiore in ogni specifico momento. Lo scopo è evidentemente commerciale altrimenti, appunto, che pop sarebbe? Nei primissimi anni 80 spesso erano new wave e sintetizzatori a dettare legge, ma dato che ai tempi c’erano tante altre cose molto appealing (la prima dance elettronica, il funky e un certo hard rock light, passatemi il termine), che i produttori si rifacessero a Gary Numan o ai Devo o ai Blondie non era certo scontato.
Prendete un brano come “Kids in America”, il successone di Kim Wilde pubblicato nel 1981 e campione di incassi un po’ ovunque. Per spingere le doti artistiche e l’avvenenza fisica della cantante britannica, chi ha prodotto il pezzo avrebbe potuto svolgere il proprio compitino come in tante altre occasioni, oppure conciare Kim Wilde come una Joan Jett qualunque (la sua cover di “I Love Rock 'n' Roll” è più o meno contemporanea) e farle interpretare la metallara del momento.
Invece l’intuizione di Ricky Wilde, fratello di Kim, e di Mickie Most della RAK Records (etichetta per cui uscirà il disco) è vincente e lungimirante. Lo stile di “Kids in America”, canzone nata da una linea di basso venuta di getto sul synth Wasp di Ricky, ancora oggi manda in sollucchero gli amanti di quel rock-wave di transizione che, non so come la pensiate, ma è uno dei prodotti più freschi mai usciti sul mercato. Il synth pop da classifica e il dark più introverso erano ancora agli albori, e in quel periodo di grande fermento certe canzoncine imbellettate con qualche tratto new wave non passavano inosservate (pensate all’arrangiamento di “Amoureux solitaires” di Lio o, per certi versi, a un pezzo come “Enola gay” degli OMD) per non parlare del fatto che erano oltremodo radiofoniche.
C’è poi anche il fattore Kim Wilde che, per i ragazzini in balia delle prime tempeste ormonali, univa il desiderio di emancipazione stilistica dal passato con il desiderio tout court, una versione più provinciale e accessibile di Debby Harry (scusami Debby se ti ho usato come termine di paragone), oramai assurta a simbolo a tutti gli effetti dello star system. Peccato però che Kim Wilde, pur con il suo talento, non abbia superato le tre unità di successi e sono stato generoso perché comunque “Cambodia” ha un suo perché e la sua versione di “You Keep Me Hangin' On” delle Supremes, uscita cinque anni più tardi, pur trascurabile, ebbe un buon riscontro.
E, a proposito di musica, 0ltre alla facilità con cui si ricorda la melodia e quell’ammiccante botta e risposta tra Kim e il “woo-o” di voce maschile, c’è un aspetto che caratterizza fortemente “Kids in America”. La hit di Kim Wilde è uno dei brani con le parti di synth più riuscite che si possa ascoltare in giro, e non solo dei tempi in cui è stata pubblicata. A partire dalla sequenza di arpeggiatore in uscita dal primo ritornello e che poi rimane sotto tutto il resto del brano, al suono che doppia l’efficace coro che subentra al secondo e all’ultimo ritornello, fino alle strings che prendono prepotentemente la scena nella coda del brano a marcare la scansione di accordi e al Moog che scala i gradi principali della tonalità mentre sotto tutti gridano/cantano di essere ragazzi in America. Ma se prestate attenzione, proprio mentre la canzone sfuma nel nulla, vi accorgerete anche di una specie di sirena che si mescola al resto, e peccato che quella chicca si percepisca appena perché, messa in primo piano, avrebbe generato l’apoteosi.