“Nella mia musica amo la varietà e la contaminazione. La chiamerei groove music, per me il ritmo è tutto, è quel qualcosa che dovrebbe spingerti a muoverti e, soprattutto, stimolarti”.
Robben Ford è un chitarrista versatile e influente sin dal conclamato debutto solista Schizofonic del 1976, e si è consolidato nel tempo, grazie a collaborazioni con i più importanti artisti della scena musicale contemporanea (bastino i nomi di Bob Dylan, George Harrison, Miles Davis e Joni Mitchell), e ad album di una solidità indiscussa come il fervido Talk To Your Daughter (1988) e il sorprendente strumentale Tiger Walk di nove anni più tardi.
Il musicista e compositore americano, recentemente di stanza a Parigi, non ama ripetersi, è sempre alla costante ricerca della differenza, intesa come crescita e pungolo a non fermarsi alla superficie o alla semplice accettazione della routine. Così, nel 2002, dopo aver firmato per la sua nuova casa discografica dell’epoca, la Concord Records, pubblica l’intenso Blue Moon e si mette subito al lavoro per un seguito che prenderà piacevolmente direzioni inaspettate. Stiamo parlando di Keep On Running, un caleidoscopio musicale di suggestioni che abbracciano il funky e il soul, l’r&b e perfino un pizzico di reggae, mantenendo forti le radici nel rock blues e abile a dilatarsi nella jazz fusion. Quasi un concetto di world music per certi versi, anche se la caratteristica principale che identifica tale progetto sono al solito le amate Fender e Gibson, che contraddistinguono il suono di un gigante delle sei corde e rendono unico l’approccio ad alcune rivisitazioni presenti in scaletta.
L’opener e title track è, difatti, un’intrigante rilettura del famoso brano dello Spencer Davis Group, portato al successo dal gruppo britannico nel novembre 1965 e, in realtà, già anch’esso una cover di quanto realizzato nell’album Come On Home dall’autore giamaicano Jackie Edwards. Robben sprigiona per l’occasione un accattivante groove funky, grazie a una fenomenale sezione fiati che comprende pure nientepopodimeno che Edgar Winter al sax baritono.
"Over My Head" è invece la classica canzone autografa di Ford, ove il rock si fonde con jazz e fusion e la chitarra viene lasciata andare a piena potenza, fino a farle dominare le trame musicali, con assoli di grande impatto. Curioso il testo, che fa intuire l’inopportunità di una relazione amorosa poiché uno dei due protagonisti è già impegnato in un altro rapporto. "Homework" presenta un incantevole intro di wah wah creato con il clavinet e pesca dal repertorio (1962) di Otis Rush; si rivela un ruspante country blues sporcato di soul, suonato e cantato con l’anima. A tal proposito si è sempre sminuito il contributo vocale dell’artista soffermandosi principalmente sulle abilità chitarristiche: ovviamente le proprie doti strumentali sono eccelse, ma il suo timbro è perfetto per il materiale proposto. Ciò si evidenzia anche in "Badge", uno dei brani più rappresentativi dei Cream, qui rielaborato con rispetto e seguendo l’arrangiamento utilizzato nelle successive performance live da Eric Clapton, peraltro con l’aggiunta, originale e ben architettata, dei vocalizzi di Siedah Garrett.
La bellezza del disco si incarna anche nella scelta degli ospiti e per un pezzo toccante come "Peace Love & Understanding" si toccano livelli altissimi con Mavis Staples che con la sua ugola d’oro colora di sfumature gospel e r&b l’atmosfera. Dall’originale di Nick Lowe con i suoi Brinsley Schwarz, all’interpretazione di Elvis Costello & the Attractions fino agli A Perfect Circle questo inno alla fratellanza e alla pace non è mai purtroppo andato fuori moda ed è stato utilizzato anche nel periodo pandemico da Josh Homme e Sharon Van Etten per dare forza all’umanità in un momento davvero tremendo.
Un’altra vetta del disco è sicuramente lo strumentale "Cannonball Shuffle (for Freddie King)", un meraviglioso e pomposo shuffle, come anticipa il titolo, dedicato a uno degli eroi d’infanzia di Ford, il mitico Freddie King. Sono quattro minuti e mezzo ricchi di momenti intensi e slanci lirici, ritmi mobili e sovrapponibili, pur in un equilibrio formale preciso e rigoroso, ove il contributo ai fiati (sassofono alto, tenore e baritono!) di nuovo dell’incredibile Winter, il solo di sax di Bob Malach e l’impalcatura sonora creata dai bravissimi session men Jimmy Earl (basso) e Toss Panos (batteria) diventa determinante e complementare alle svisate chitarristiche del protagonista, che si cimenta con passione anche al piano acustico. Proprio John Mayall, lo special guest all’armonica nei due motivi di chiaro stampo blues a seguire nella raccolta, Lifetime Thing e "Me and My Woman", riprenderà "Cannonball Shuffle" nel 2007 per il suo progetto dedicato al Re delle dodici battute texano, "In the Palace of the King", e Robben Ford ricambierà il favore suonandovi con ardore e fierezza. Quando si parla di incroci e di chiusura del cerchio!
Ford è ispirato anche in un'altra composizione pennellata per l’opera, "Bonnie", un rock ben calibrato che esprime un poco di paranoia e pessimismo nelle liriche ed è costruito su arpeggi di chitarra e piano elettrico, mentre si rivela un’ottima idea buttarsi nel soul funk mischiandolo con il jazz per la ripresa di "For the Love of Money", brano storico degli O’Jays. Edgar Winter, ancora lui, imperversa ai fiati, ma è magistrale pure la zampata all’organo di un’altra icona a stelle strisce, il polistrumentista e cantante Ivan Neville.
“Percorreremo insieme quella strada, ma non ti incontrerò mai più. Chiunque decidesse di guardare mi vedrebbe andare via. Camminando mano nella mano con il blues, mano nella mano con il blues…”
"Hand in Hand with the Blues" è la canzone che chiude l’album e che è destinata a rimanere una delle perle minori, ma comunque fra le più amate dagli hardcore fan dell’artista americano. Ballata struggente, registrata in trio, assieme a Earl e al batterista Steve Potts senza numerose sovraincisioni, rappresenta nel testo e musicalmente l’evoluzione del blues. La chitarra piange e rende struggenti le parole che trasudano sofferenza, ma lasciano in fondo sempre, nonostante le palesi avversità, un briciolo di speranza nel futuro, a costo di camminare mano nella mano con la tristezza, con il blues. Un blues che accompagna e attraverso il dolore guarisce. E in fondo è questo il compito del musicista, la cui vita completamente dedita all’arte è ancorata a valori universali, alla bellezza, all’eccellenza tecnica congiunta all’espressione più profonda dell’anima. La sua spiccata sensibilità può lenire i mali del vivere e offrire rifugio all’ascoltatore che si nutre delle sue composizioni.
Robben Ford ha continuato questo percorso con lavori intriganti, da Live in Tokio (2007) con l’amico Larry Carlton ai recenti Purple House (2018) e Pure (2021). Proprio in questo periodo ha pubblicato l’interessante Common Ground, insieme allo storico sassofonista Bill Evans, con cui aveva già lavorato in occasione del piacevole The Sun Room (2019). Musica e sonorità senza compromessi, come le sue straordinarie esibizioni dal vivo, che hanno toccato in ottobre l’Italia per aprire gli show di Eric Clapton, dimostrando ancora una volta la sincerità e integrità delle proposte, dove al centro vi è l’arte nella sua accezione più pura, senza strizzare l’occhio alla commercialità.
“È un business terribile, lo sapete? Musica e affari non hanno nulla a che fare l'uno con l'altro; non c'è alcuna correlazione, quindi è sempre un problema. Vorrei incoraggiare le persone a non farsi influenzare dal business della musica. Se siete veramente, nel vostro cuore, dei musicisti, restate tali e lasciate che il business vi trovi”.