“Mi piacerebbe essere ricordato come una persona in grado di raccontare belle storie, dando vibrazioni positive attraverso la sua musica e facendo star bene tutti…”
Queste parole di Keb’ Mo’ calzano a pennello per introdurre il “pluridecorato” Keep It Simple, disco che immerge le radici nell’amato blues, ma, doverosa premessa, stende poi i rami nei generi affini e fonde country folk, gospel, soul e r& b con un’interpretazione e una scelta degli arrangiamenti davvero azzeccata. Anche il posizionamento delle canzoni nell’opera sembra strategico, con un incipit scintillante, più leggero, poi luccicano nel mezzo i pezzi forti, per arrivare al sorprendente finale che è un distillato di malinconia e tristezza, perfettamente calibrato per lasciare l’ascoltatore ancora con l’acquolina in bocca, come nelle migliori trame dei film di successo, in attesa di un sequel.
Belle storie, quindi, e analizzando i testi ne vedremo alcune pure pittoresche, attraverso la sua musica che risulta originale, con dodici tracce scritte di proprio pugno o in cui risulta coautore, per un viaggio che percorre l’America e fa sognare, grazie a una soave impalcatura sonora costruita sugli innumerevoli strumenti suonati dall’autore. Oltre alle amate Gibson, Martin, Resurrection e Hamer Guitars abbiamo steel mandolin, banjo, armonica, percussioni, sintetizzatore, basso, mandolino classico e bouzouki banjo, tutti sapientemente pendenti da mani e bocca dell’artista ora di stanza a Nashville, ma losangelino di nascita e con genitori provenienti da Louisiana e Texas. Un perfetto miscuglio di luoghi e tradizioni, che hanno dolcemente influito nella formazione giovanile di Keb’.
Sono comunque presenti nomi pesanti scorrendo i credits dell’album. Non solo, quindi, le virtuosità del titolare in questione, qui anche nelle vesti di produttore, ma pure solidi partner come i mostruosi Nathan East, Greg Phillinganes e Steve Ferrone, trio delle meraviglie rispettivamente per basso, tastiere e pelli, senza dimenticare il dobro di Paul Franklin, indimenticabile aggiunta dell’ultimo periodo dei Dire Straits e poi session man per Mark Knopfler, la French harp avvolgente di Jeff Paris, micidiale anche all’organo, e il mandolino dell’ottimo Sam Bush.
Tutto questo e tanto altro di cui andremo presto a parlare hanno reso unico il settimo lavoro di Kevin Moore, che deve il moniker al suo batterista originale, Quentin Dennard, il quale era solito chiamarlo, per abbreviazione, tipico linguaggio da strada, appunto Keb Mo, e la cosa, evidentemente, piacque.
Keep It Simple prosegue, come anticipato all’inizio, l’allontanamento del musicista dal blues tradizionale, presente nei primi dischi, soprattutto a partire dal secondo omonimo lavoro pubblicato nel ’94; si tratta di un tragitto importante che gli permette di elaborare le esperienze passate e sperimentare, creare una commistione di generi che vedono l’apice in questa raccolta.
I primi quattro brani sono emblematici da tale punto di vista. L’introduttivo "France" è un giocoso e ironico shuffle, che mostra il protagonista della storia alla ricerca di denaro per soddisfare il desiderio della dolce metà: abbandonare per qualche giorno il Texas per visitare la romantica Parigi. "Let Your Light Shine" e "One Friend", invece, attingono dal country folk per descrivere quanto sia importante guardarsi dentro e far brillare la propria luce e come un amico possa far uscire dalle tenebre. Il tutto condito da cori gospel, da un fiorire di percussioni, con deliziosi ricami di chitarre acustiche e steel mandolin. Le liriche possono sembrare semplici, però, come spesso capita, se intrise di blues assumono significati assoluti, mettendo al palo la banalità.
“Forget about the cover let me read the book.”
"Shave yo’legs", tenero acquerello elettroacustico, prosegue la filosofia della ricerca interiore perlustrando pure il rapporto di coppia. Non bisogna nascondere ciò che si è davvero, non interessa la copertina del libro, ma quello che c’è scritto all’interno perché la felicità non si può guardare, cercare già fatta, non coincide con facilità, si trova scavando nel profondo.
Ora il disco cambia marcia, giungono il salvifico blues acustico di "Prosperity Blues", nomen omen, reminiscente del classico di Bessie Smith "Nobody Knows You When You're Down and Out", qui con la situazione economica del protagonista capovolta, e la magnifica ballata "Closer" - pervasa dalla magica intensità del violino della meravigliosa Andrea Zonn -, dichiarazione d’amore a un’amica che si brama adesso anche come compagna di vita.
La title track offre un altro momento “unplugged” a dodici battute: questo inno a un ritorno alla semplicità è una delle chicche dell’opera, Keb’ Mo’ è magistrale alle chitarre, mentre stranamente si dedica solo al canto nella successiva "Riley B. King", ode al mitico B.B., altro pezzo forte che racchiude in poco più di cinque minuti gli straordinari assoli di due giganti della sei corde, Robert Cray e Robben Ford, “assunti”, inoltre, come backing vocalist.
La scelta degli ospiti adeguati, in modo che si possa dare il giusto risalto alla canzone, prosegue nell’agrodolce "House in California", ed effettivamente i cori di Vince Gill ammansiscono la tristezza del racconto di una famiglia che dalla lontana piovosa Buffalo si è trasferita investendo tutti i suoi risparmi in California, ma poco dopo un terremoto ha danneggiato la tanto agognata casa. Una metafora della vita, in cui i desideri materiali non sono mai pienamente appaganti e possono condurre a inaspettate delusioni, mentre rimane lo splendore dell’io interiore, della ricerca di una serenità senza bisogno di muoversi, guardandosi nel profondo del cuore, tema ricorrente pure nel r&b con venature spiritual "I’m Amazing".
Riappacificazione e, invece, magra soddisfazione per una vittoria morale che genera altresì solitudine e lontananza, caratterizzano rispettivamente il bellissimo blues moderno di "Walk Back In", con una chitarrina e un piano elettrico che sconfinano nel jazz fusion e la struggente "Proving You Wrong". Quest’ultima è la sorpresa finale, un gioiellino carico di pathos, indovinata chiusura che racchiude ciò che da sempre contraddistingue il blues, quella mescolanza contemporanea di felicità e tristezza.
“Well I won the battle
But I lost the war
Everything that really mattered
Just walked out the door”.
“Ebbene ho vinto la battaglia, ma ho perso la guerra, tutto ciò che contava veramente se ne è appena uscito dalla porta.”
Risultano spettacolari, nel creare scampoli di pura emozione e concordia di suoni, armonica e bouzouki banjo, perfettamente inseriti nell’arrangiamento da Keb’ Mo’, insieme al basso preciso del veterano Willie Weeks.
Sono passati già diciassette anni da Keep It Simple, tante cose sono cambiate nel mondo della musica, tuttavia Kevin Moore ha sempre mantenuto la propria integrità, macinando chilometri su chilometri per importanti esibizioni dal vivo, mettendo tutta la sua verve in eventi come il Crossroads Guitar Festival e Playing for Change, e rinnovando la partnership con quell’istrione di Taj Mahal, un’amicizia e collaborazione sfociata anche nel bellissimo TajMo (2017). Il brioso Oklahoma (2019), poi, gli ha garantito pure il quinto Grammy Award.
Ora, fresco dei festeggiamenti per i settant’anni compiuti a ottobre, lo aspettano a dicembre alcune date nella sua Nashville, un nuovo album a gennaio, anticipato da un gustoso singolo in coppia con Darius Rucker (ex Hootie & The Blowfish) e un conseguente tour che dall’America si dipanerà in Europa nella primavera del 2022. In una sola parola: irrefrenabile.
“Ho raggiunto quota 70, ma sono vivo e vegeto e ancora affamato. Sono ancora là fuori a provarci ogni singolo giorno.”
Keep on Keb’, Keep on!