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REVIEWSLE RECENSIONI
07/03/2024
Myrath
Karma
Le sabbie del tempo ci portano “Karma”, album numero sei dei tunisini Myrath, in cui si dimostra una volta ancora che il metal non è solo potenza e binomio tra bene e male, o nero e bianco. Qui si accendono le fantasie e i colori di un mondo nuovo, in cui le stelle del deserto si stagliano in un cielo senza nuvole.

Karma è il titolo di un capolavoro partorito dai Kamelot, ma ora viene rubato dai Myrath (nome arabo che può essere tradotto nell’inglese legacy, in italiano “eredità”), per un ritorno lungamente atteso. Parliamo di una band sicuramente peculiare e che ha assunto uno status di culto, più che raggiungere un successo capillare, anche se il progressive metal proposto dal gruppo capeggiato dal chitarrista storico Malek Ben Arbia negli anni si è fatto sempre più melodico e quasi “ballabile”, mescolando strumenti e ritmi orientaleggianti con il classico sound metal occidentale.

D’altronde, sono i Myrath stessi a definire il loro stile come “blazing desert metal” (metallo ardente del deserto), portando echi e colori arabeggianti in un contesto più quadrato e rigoroso, offrendo così un effetto nuovo e quasi spiazzante, destinato a essere amato senza remore, oppure rifiutato alla radice. Karma offre di certo una rispettosa continuità rispetto al precedente Shenili, procedendo verso melodie solari e un metal melodico che però viene contaminato da influenze antiche e sempre “progressive”, e qualche piccola sorpresa più rockeggiante, senza dimenticare le orchestrazioni di ampio respiro e qualche piccola pesantezza ritmica più oscura e “spessa”.

 

Come nei migliori dischi, sono gli ascolti ripetuti che danno il giusto valore a un disco che cresce di valore e spessore sempre di più, mostrando uno stile ben consolidato ma offrendo anche sprazzi di coraggio ben congegnati, come nel riff hard rock di “Candles Cry”, doppiato da un basso slap e con un coro quasi rappato. In principio i tunisini ci avevano rassicurato con l’epica cavalcata iniziale di “To The Stars” (in cui tornano i Kamelot) e la danza caleidoscopica di “Into The Light”, ma “Let It Go” ha un ritmo incalzante e si nutre di echi romantici e quasi AOR, mescolati con ritmiche sinuose e passionali.

Il controtempo di “Words Are Falling” riporta verso le influenze prog metal, ma in questo caso si fonde con linee vocali morbide e quasi pop. La polvere del deserto torna nei labirinti sonori di “The Wheel Of Time”, che si liberano in un ritornello arioso e “liquido”. E’ chiaro che la velocità non sia la cifra stilistica di “Karma” che punta di più su tempi medi, ancora protagonisti in “Temple Walls”, graziata da orchestrazioni monumentali e misteriose, in cui ancora una volta si erge la voce unica di Zaher Zorgati, cantante di valore assoluto e realmente sottovalutato.

Il viaggio tra antico e moderno prosegue con “Child Of Prophecy”, ancora pervasa da ritmiche non lineari, chitarre ribassate e melodie che possono ricordare i Journey, se fossero nati in Africa. Le armonie corali si inseguono nei vicoli tortuosi di “The Empire”, un mantra lisergico che lascia il posto al singolo “Heroes”, inno poderoso già ascoltato dal vivo e che avanza senza incertezza alcuna, verso il finale cinematico di “Carry On”, forse il brano più sperimentale e visionario, che evoca emozioni stratificate e mai banali.

 

Karma non è un viaggio per tutte e tutti, ma dovrebbe diventarlo, perché si erge come una lezione suprema di arte musicale che riesce a far viaggiare la fantasia e oltrepassa tutti in confini per diventare eterna e universale.