Generalmente questo secondo album è additato come una delusione. E perché? Manca, certo, il mega-brano-esagerato, il Moloch a cui sacrificare giovani vergini dalla pelle chiara al primo appuntamento “Ehi, ti piace la musica? ...ti faccio ascoltare un pezzo…”. Però il gruppo riesce a non cambiare del tutto il proprio sound fatto di buio e catacombe (cosa che per esempio non riuscì a Sir Lord Baltimore, Captain Beyond, Hard Stuff e tanti altri…). E pur spalancando finestre di luce diurna assai californiana (Iron Butterfly, Jefferson, Steppenwolf…), Tull & Turner sono sempre martello e incudine di una fucina sonora foderata di piombo, in cui il buon Dave Mitchell scopre finalmente “la sovra-incisione” e riempie quegli spazi vuoti (che certo, erano fantastici…) con strati di chitarroni hard-western che dopo trent’anni sono una fantastica reliquia del tempo che fu.
Peccato solo per quella canzoncina soft di Jimmy. Jimmy, melenso tributo a Hendrix, che sgonfia totalmente questa nuova bolla scura in cui il gruppo aveva tanto faticato a rinchiudersi: la canzone in sé neanche è orrenda, ma ammoscia terribilmente una bella tensione accumulata per tutto il lato A. E per fortuna che a ruota c’è subito Feelin’ Good, ridondante hard-rockkone sessista, stracolmo di chitarre e birra, che avrebbe potuto essere il nuovo Moloch e invece viene tarpato sul più bello, quando anche il canto debosciato di Bailey aveva finalmente trovato una sua maschia teatralità.
Il gruppo non ha poi del tutto abbandonato nemmeno le elucubrazioni sulla morte (Condition, I Saw A Killin') né certe profondità doom (Bald Peach) e questo disco, piaccia o no, segna un piccolo passo avanti dal punto di vista meramente sonoro.
B.S. Creek è forse la loro canzone migliore, una sfrenata cavalcata chitarristica post-hippy che decolla in effetti spazialeggianti su una sabbia rossa di Marte percorsa da bikers indomiti con la Colt carica in cintura. La vendetta di Mick Bolton, con tanto di riff-che-non-dimentichi e che da vent’anni Josh Homme svende alle masse di Lollapalooza. E se America si concede a sane ideologie sinistroidi come un brano di John Kay suonato dagli Iron Butterfly che copiano Volunteers, beccatevi il riffone di I'm Gettin' On, brano che degenera presto nei power-chord assassini di Mitchell. Sefus Blues è una sceneggiata agonizzante di Pete Bailey alle prese con un serpente a sonagli che si trascina nella tana al crepuscolo. Condition ritorna nei territori californiani di America, ma il cantante sfodera la bella pantomima di un vagabondo serial killer che sta morendo di sete nel Mojave mentre la chitarra divaga meravigliosamente senza costrutto. Alla fine resta, con il suo antiquato moraleggiare, solo il country stonato di Such Is Life.
Peccato che qui finisca anche la storia dei Josefus, riemersi più volte negli anni a venire, ma minati dalla tragica fine del pittoresco batterista, ufficialmente impiccatosi in carcere dopo essere stato arrestato per possesso di stupefacenti. Un’ennesima morte rock su cui, questa volta, ben poco si indagò.
Album perdente nel confronto diretto con Dead Man, Josefus segnò il passaggio della Band all’etichetta Mainstream. Vinili originali (etichetta blu-nera) sopra i 150$ ma difficilmente oltre i 300$: manca tutta l’aura mistica dell’esordio.
CD piuttosto costoso (oltre i 20 euro, in media) meglio ripiegare sull’edizione che accorpa i due album del gruppo.
Pete Bailey: vocals, harp
Dave Mitchell: guitar
Doug Tull: drums
Ray Turner: bass