È quantomeno singolare il fatto che nei giorni in cui scoppia la (piccola) polemica lanciata da un Martin Scorsese che taccia i cinecomics di essere prodotti di consumo estranei all'arte del Cinema, arrivi nelle sale nostrane un film tratto dai fumetti decisamente scorsesiano e che guarda al lavoro del regista con reverenza e rispetto. Lungi dal voler entrare nel merito della diatriba (per chi scrive Scorsese può dire a pieno diritto tutto quello che vuole sul Cinema) diciamo subito che Joker è un film molto distante dal classico film di supereroi, quasi un film d'autore che cerca, anche forzando la mano, di dare un tono più adulto a ciò che di norma viene considerato intrattenimento per ragazzi. L'altra cosa singolare è che questo trattamento del Joker, personaggio che sicuramente si presta a una lettura stratificata, arriva da un regista che finora si è sempre occupato di film cialtroni, a volte anche con ottimi esiti (vedi Una notte da leoni ad esempio), un cambio di rotta estremamente riuscito e che da Todd Phillips non ci aspettavamo, a dimostrazione che non necessariamente serve un "autore" affermato per girare un buon film su un personaggio di fantasia. Anche se, e qui torniamo alla definizione di Cinema scorsesiano, questo personaggio di fantasia, questo Joker, non ha davvero nulla di super, è semplicemente una persona che cede, dentro alla quale qualcosa si incrina, è una vittima, un malato, un uomo che cade pian piano nella follia, un clown triste che volta l'angolo (per dirla con Alan Moore, grande autore di fumetti) e nel farlo sfoga tutta la sua frustrazione e il suo disagio con atti violenti. In questo senso i riferimenti, palesati ormai da chiunque abbia parlato del film, sono più a Taxi driver o a Re per una notte (entrambi diretti da Scorsese) che non alla saga di Batman che nel film è presente solo con qualche breve accenno e nell'ambientazione a Gotham City. Forse non tutti sanno che, ben prima della nascita di Batman (datata 1939), New York City veniva soprannominata proprio Gotham, nella scelta di Todd Phillips di riprendere una New York veritiera, non snaturata per farla somigliare alla Gotham dei fumetti, c'è uno dei motivi di riuscita del film, probabilmente la scelta che più di tutte, ancora una volta, ci riporta al Cinema di Scorsese, l'ambientazione nei primi anni 80 in una New York lurida e grigia, attanagliata dai rifiuti e dai ratti giganti, non può non ricordare alcuni dei passaggi più iconici del regista newyorkese. Così, protagonista di uno strano cortocircuito, questo cinecomics anomalo si trova a essere vero Cinema, anche di quello ben riuscito.
L'altro motivo di successo del film è riconducibile alla superba interpretazione di Joaquin Phoenix che per interpretare la parte ha dovuto perdere circa venticinque chili, la sua è una prova in bilico tra sofferenza e follia, il protagonista Arthur Fleck (vero nome del Joker) soffre di un disturbo provocato da un trauma che lo porta a una risata scomposta anche nelle situazioni più delicate e meno appropriate al riso, questa patologia unita a un pizzico di sociopatia rende Arthur un sognatore reietto, un uomo triste che vive in una sua realtà abbruttita dall'indifferenza della gente comune e dai soprusi dei prepotenti che in una Gotham/New York malata di certo non mancano. La risata agghiacciante di Phoenix, le sue espressioni non solo folli ma completamente dissociate, le contorsioni di un corpo provato, insieme a una serie di sequenze memorabili (magnifica quella sulla scala) probabilmente porteranno l'attore verso l'Oscar e verso la definizione del miglior Joker di sempre (c'è da dire che è anche l'unico ad aver avuto un film tutto suo). La costruzione graduale del personaggio aiuta a rendere credibile la parabola di un uomo che in nuce porta i semi della follia che non mancano di esplodere di fronte all'ennesimo torto subito. Da quel momento il Joker diventa un simbolo per tutti gli esclusi, per chi come lui è vittima di una società indifferente e schifosamente classista (come la nostra), da qui il sottotesto politico che rimanda all'uomo da seguire, ai fenomeni "populisti" (definizione che personalmente disprezzo) e anche a movimenti come Occupy Wall Street, con tutta la questione delle maschere, e ancora una volta torniamo ad Alan Moore e al suo Guy Fawkes (autore tra l'altro anche del seminale The killing joke).
Capolavoro? Probabilmente no, solo un bellissimo film che sottolinea come già hanno fatto i Bats di Nolan o il Logan di Mangold, che è possibile costruire opere di altissimo valore partendo da dei personaggi a fumetti per i quali la deriva più dark e dura, pur non essendo l'unica possibile, rimane indubbiamente tra le più affascinanti. Ultimo plauso proprio per Phillips che, messe da parte le tendenze cazzare, offre una regia molto interessante che contribuisce bene, in quanto Phoenixcentrica, a creare il personaggio e a farcelo amare nel suo ruolo di vittima ma anche un poco, ammettiamolo, in quello di carnefice.