A volte la forza della musica e dei legami tra gli individui è più forte del destino, che veste e riveste la storia con la consueta beffarda casualità, lasciando solo il tempo a medicare le ferite. Già all’inizio del 1970 i Traffic non esistono più. Ed è un vero peccato. Due eccellenti dischi, altrettante affascinanti antologie postume e una manciata di singoli vincenti sono quello che resta di quell’inarrivabile talento. Jim Capaldi si diletta a lasciare il segno come session man ad hoc, Dave Mason sogna di intraprendere la carriera solista dopo aver partecipato a concerti e opere di Jimi Hendrix, Rolling Stones e Delaney & Bonnie, mentre Chris Wood furoreggia in tour con Dr.John e si accinge ad unirsi ai Ginger Baker’s Airforce. L’autore più poliedrico dell’ensemble, Steve Winwood, dopo lo scioglimento dei Blind Faith, si imbarca in una nuova avventura, sta lavorando per un album tutto suo, e ha già pronto il titolo, Mad Shadows e un paio di pezzi.
Qualcosa non funziona come dovrebbe, però: Winwood ritiene le sue performance autoreferenziali, troppo sbilanciate unicamente su di lui e trova il coraggio di chiamare Capaldi e Wood per registrare il materiale, il bisogno di menti aperte musicalmente lo convince a fare un passo indietro. Ed è così che l’idea di un “solo set” evapora a favore di una reunion a tutti gli effetti - escluso il già comunque da tempo insofferente Mason -, dove ogni personaggio aggiunge le proprie esperienze maturate al di fuori della band, come trovarsi in multipli e simultanei matrimoni: ecco, forse questa immagine rende ben chiare le dinamiche vissute dal gruppo in quei magici momenti. Contaminazione, condivisione, apertura musicale e mentale alle novità. I Traffic in John Barleycorn Must Die incorporano talmente tante - e diverse - influenze, che si mescolano e poi scorrono fluide come le correnti di un fiume rinvigorito dalle piogge autunnali, da far riflettere su un termine coniato successivamente e che qui calzerebbe a pennello: World Music.
Un viaggio semi-psichedelico con tappa a New York, per abbeverarsi alla fonte di un jazz sfrontato, ricco di improvvisazione alla Thelonius Monk e assaporarne le sfumature funk-fusion di Herbie Hancock; poi in picchiata a sud, verso il caldo soul di Memphis e sempre più giù per abbronzarsi di ritmi latini, prima di attraversare l’oceano e sbronzarsi di vecchio folk britannico. Anche l’idea di affiancare il mitico Chris Blackwell a Winwood per la produzione contribuisce a garantire il giusto equilibrio tra i membri del combo, e l’iniziale frizzante strumentale "Glad" è una sorta di manifesto dei loro intenti. Capaldi è trascinante dietro alle pelli - questo sarà l’unico pezzo in cui non contribuisce alla scrittura -, l’autore Steve Winwood è irrefrenabile a piano ed organo, ma quello che più sorprende è la versatilità di Wood, l’unico a non apportare nessun contributo compositivo nel disco, capace però di infervorare l’atmosfera con i suoi incroci di flute e sassofoni.
La seguente "Freedom Rider" prosegue questo schema, peraltro virando dal rock jazz sofisticato del brano precedente verso scenari più psichedelici, con un guazzabuglio di flauti a ricamare una batteria potente e tastiere sognanti. La voce di Steve si fa largo ricordando a tutti quanto fosse meritato l’appellativo di Ray Charles bianco; il testo è allo stesso tempo affascinante e criptico. Probabilmente è stato scritto in onore dei cosiddetti “cavalieri della libertà”, attivisti dei diritti civili che nel 1961, nel sud degli Stati Uniti, protestavano contro la segregazione razziale.
“I nostri metodi di scrittura erano poco ortodossi in molte situazioni. E dobbiamo rimembrare che Jim era un grande batterista, anche lui poco convenzionale, quindi era inevitabile che il ritmo e le percussioni facessero parte del processo creativo. Dire che i nostri brani provenissero da "jam" è corretto fino a un certo punto, anche perché bisogna ricordare che tutte le composizioni nascono dall'improvvisazione. Quando si provavano le canzoni, Jim aveva già in mente alcuni testi prima che ci mettessimo a buttare giù la musica, poi quando ci accorgevamo che tutto funzionava bene io iniziavo a cantare le sue parole".
Le affermazioni di Winwood spalancano una finestra sulle sue brillanti attitudini compositive in duo con Capaldi e rafforzano l’idea che fosse azzardato ridurre i Traffic “solo” a jam band, pur con tutto il rispetto verso quei gruppi catalogati unicamente in tal modo. "Empty Pages", uno dei vertici del disco, è un esempio eclatante di eccellente scrittura, evidenziato musicalmente da un incipit il quale già presenta la solida struttura che verrà usata nel refrain, un basso rimbombante e passaggi strumentali di alto livello, con un drumming agile e originale a sostenere un piano elettrico da urlo, rinforzato e supportato per l’occasione da Chris Wood all’organo. Le liriche sono quanto mai di più ambiguo si riesca a trovare in un loro pezzo: le “pagine vuote” possono far pensare ai delicati e altalenanti rapporti sentimentali con una persona sfuggente, piuttosto che a una velata ode nei confronti dello sballo, o alla difficoltà di mettersi a fuoco nella vita lavorativa. Se il soul con quel tipico mood dei sixties caratterizza questo episodio, l’atmosfera cambia invece nella title track, moderna interpretazione della musica folk tradizionale. "John Barleycorn (Must Die)" è una “ballad” presente nel primo decennio del Novecento nella collezione di Cecil Sharpe, ma vanta origini antichissime, si stimano circa centoquaranta versioni a partire dal XVI secolo, concepite tra l’Oxfordhire, il Sussex, l’Hampshire, il Surrey e il Somerset. Le più accreditate interpretazioni di questo canto antico si legano alla metafora della mietitura del mais d’orzo, con successiva produzione di birra e whisky e al tentativo - non riuscito, infatti alla fine si potrebbe definire una “drinking song” - di dismettere la dipendenza dall’alcool, qui personificato in John Barleycorn, nomen omen, il quale “deve morire”, però sono tante le varianti, che aggiungono quel quid di mistero. I Traffic, dal canto loro, contribuiscono a offrire un’aura spettrale pseudo rurale con chitarra acustica e piano, timide, ma stranianti percussioni, e un flute penetrante, con groove in crescendo.
Il southern rock di "Stranger to Himself" e i sette minuti di chiaro stampo blues "Every Mother’s Son" sono le restanti tracce dell’LP, rielaborate dal progetto iniziale di Winwood, e vedono solo il contributo aggiuntivo di Capaldi, rispettivamente nei cori e nella batteria. Sono due brani notevoli, ora perfettamente calzanti nella variegata trama musicale intessuta dal gruppo che vede il suo ultimo guizzo, con una formazione allargata, in The Low Spark of High Heeled Boys (1971), prima di perdersi un poco tra live, in proporzione poco rappresentativi della forza e propulsione posseduta, e dischi appena discreti - sicuramente da dimenticare l’ultimo When the Eagle Flies -, fino all’improvviso, ma prevedibile break-up avvenuto dopo una serie di show nel ’74, con buona parte dei musicisti stanchi, strafatti o ammalati.
Gli anni ottanta vedono la forza trainante Capaldi-Winwood alla ricerca di successo nella carriera solista, cosa che avviene di buon grado soprattutto per l’ultimo citato, e un tragico lutto: Chris Wood muore di polmonite nel 1983. Passano oltre due lustri prima della sorprendente e tutto sommato accettabile reunion del 1994 con Far From Home, che prevede il contributo in studio del mago delle Uillean pipes Davy Spillane e di Walfredo Reyes Jr., Michael McEvoy e Rosko Gee nelle date del tour. Le speranze di ritrovare in futuro i Traffic nuovamente insieme si infrangono poco dopo la loro induzione alla Rock and Roll Hall of Fame del 2004. Nel gennaio 2005 Jim Capaldi si arrende e lascia questo mondo per un maledetto cancro allo stomaco. Lo straordinario patrimonio della band rimane integro, eterno e indimenticabile nelle opere pubblicate e arde ancora intensamente nelle performance dal vivo di Dave Mason e Steve Winwood che, seppur da separati e, pare, ancora non in buoni rapporti, continuano a incendiare le personali setlist con pezzi dei Traffic.
“La loro musica mi ha salvato in un momento cruciale dell’esistenza, quando avevo poco più di vent’anni e non sapevo ancora che direzione avrebbe preso la mia vita. Penso che siano una delle più grandi rock and roll band di tutti i tempi…”. (Dave Matthews)