Otto anni sono passati affinché Raphael Saadiq ci facesse dono di un nuovo album, venti anni invece sono trascorsi, vissuti in compagnia di demoni dentro la testa e l’anima dell’artista americano dalla scomparsa per overdose del suo adorato fratello maggiore (Saadiq ha avuto altri fratelli scomparsi, quattro per la precisione, a causa di dipendenze e disgrazie assortite). Un tempo lunghissimo per elaborare il lutto e per metterlo in musica, in un disco duro e senza compromessi verso chicchessia.
Opera questa che si eleva dalla marmaglia di dischi più o meno inutili che invadono gli streaming di ogni ordine e grado, ammantata di classicità e modernità al tempo stesso, passato qui da noi sotto silenzio se non per la perspicacia di quei pochi che non rincorrono falsi miti (ogni riferimento al nuovo album dei Tool non è puramente casuale) o che non si perdano dietro alle paturnie del Jovanotti di turno.
Già vocalist e bassista nei Toni! Tony! Tonè! nonché produttore per la nobiltà soul ed r’n’b, vedi alla voce Solange, Erika Baduh, Mary J. Blige e Lionel Ritchie, diciotto nomination ai Grammy, collaboratore nei dischi del grande D’Angelo, “Lady” ed “Untitled (How does it feel)” portano anche la sua firma, e, ben prima di essere tutto questo, Saadiq ha avuto la fortuna di essere un adolescente felice; sì, insomma, trovatemi un altro aggettivo appropriato per uno che a diciotto anni suonava il basso nella backing band di Sheila E. e che andava a farsi il bicchiere della staffa suonando insieme a Prince nei bar delle città toccate dai concerti del genio di Minneapolis.
Jimmy Lee: il nome del fratello scomparso come titolo del disco e canzoni che non danno consolazione, un viaggio, quello di Saadiq, dentro la dipendenza da sostanze chimiche e il senso di perdita, non un vero e proprio concept ma storie che raccontano la vita del fratello anche come un punto di riferimento della sua adolescenza e molto amato nonostante egli non sia stata la classica persona da portare ad esempio.
Da “Sinners Prayer”, brano cupo sostenuto dalla voce disperata di Saadiq e da un tappeto di archi, come ultima richiesta di aiuto verso un’entità superiore che già sappiamo non ascolterà, si dipana un lavoro fatto anche di stili musicali che coprono tutto il vasto corpus della musica black degli ultimi cinquant’anni. Ascoltate ad esempio come si interseca il pezzo successivo “So Ready”, grandioso liquid-funk che musicalmente ricorda l’epoca d’oro di Michael Jackson e Quincy Jones, con una linea di basso assassina e una storia che racconta di droga, bugie e cuori infranti. Questa dell’intersecazione tra un brano e l’altro è la costante di tutto il lavoro, fatto di stop improvvisi alle canzoni, come quando ti ritrovi a spazzolare le frequenze in radio tra una stazione e l’altra in cerca del tuo pezzo preferito.
“This World Is Drunk” ad esempio potrebbe essere uno di questi, il terzo della scaletta, ritratto impietoso del protagonista dell’album:
“Il suo cervello pesa almeno una tonnellata
La sua mente è così stressata
Cercando di essere un re
Quando tutti intorno a lui
Vedono il pagliaccio e
Stanno ridendo di lui
Guarda questo idiota
Non sapevo fosse destinato alla caduta
Non riesco a trovare la verità in nessun amico
E tutto ciò che fa è desiderare droghe”.
Droga che si insinua maliziosa come unico desiderio nella seguente “Something Keeps Callin’ Me”, il vertice di tutto il lavoro, dove il richiamo è quello dato dall’ago e dalla siringa, brano che vede la partecipazione di Rob Bacon alla chitarra, il quale ricama un assolo psichedelico e nervoso.
Logica conseguenza sono “Kings Fall” e “I’m Feeling Love” dove Saadiq ci accompagna dentro i paradisi artificiali in compagnia del fratello, due pezzi di r’n’b contemporaneo più sincero, che non fa mistero e non si vergogna di ricordarci quello che suonavano gli eroi della musica soul. In bilico tra modernità e tradizione questo Jimmy Lee, dove l’aggancio con il presente è dato da un pezzo come “My Walk” suonato da synth nervosi ed acidi per arrivare alla tradizione gospel nel seguente “Belongs To God” cantata dal Reverendo E. Baker come se ci trovassimo in una chiesa battista di New Orleans (niente a che vedere con le nostrane litanie, insomma).
Un attimo illusorio di pace subito spazzato via da “Glory To The Veins”, pezzo che sta tra il jazz e l’r’n’b più oscuro e che ci scaraventa di nuovo nell’abisso dell’eroina e dell’epidemia associata allo scambio di siringhe, l’Aids, ed è ancora uno straziante appello di Jimmy Lee per l’interposta voce di suo fratello e del guest Ernest Turner:
“Ci sono troppe persone che camminano dietro di me
Ho bisogno di te accanto a me, per favore, vieni a trovarmi
È stato così freddo, la luce potrebbe accecarmi
Dio aiutami a trovarmi”.
Ancora il gospel protagonista in “Rykers Island”, lamento per i troppi fratelli rinchiusi nel carcere di massima sicurezza in un isoletta prospiciente New York: “Too many niggas in Rykers Island, set ‘em free”.
Il rumore di un chiavistello che chiude una porta di una cella il preludio a “Rykers Island Redux”, invettiva rap sul prendere coscienza di se e un invito senza tanti giri di parole a ribellarsi:
“America, America
Purveyor of mass hysteria
Mass production
And mass incarceration”
e ancora
“The other unlocks chains, so turn key
I hate that this deferred dream keeps recurring
Wake up America, wake up and hurry”.
Parole di rabbia e speranza subito ricacciare indietro dalla disillusione e rassegnazione nel pezzo finale “Rearview”: “Come posso cambiare il mondo se non riesco a cambiare me stesso?”
Saadiq in Jimmy Lee ci ha portato dentro il suo più intimo sentire, un disco dove si mette a nudo senza scadere nel sentimentalismo da quattro soldi. Un disco che in altri tempi, quello dei dischi centellinati ad ogni ascolto come un buon vino, avrebbe ricevuto lo status di capolavoro negli anni a venire.