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REVIEWSLE RECENSIONI
07/03/2023
Jim Mannez
Jim Mannez
Jim Mannez pesca a piene mani dalla tradizione Rock e Folk, da un lato Elvis e Chuck Berry, dall'altro De Gregori e Canali, per un gran bel primo disco solista (edito dall'appassionata etichetta bergamasca Gasterecords), che compone un ritratto appassionato dell'autore.

Quel che è successo alla musica contemporanea negli ultimi anni è che, influenzata e condizionata dal linguaggio dei Social come qualunque altro fenomeno culturale e sociale, si è progressivamente appiattita su di esso. A contare sono i numeri, non importa se reali o gonfiati, annunciare di fare cose è più importante di ciò che si fa, la narrazione celebrativa ha inglobato del tutto i fatti e li ha sostanzialmente tolti dalla circolazione; la distanza tra artista e Social Media Manager, va da sé, è stata completamente annullata. Essere musicisti senza essere allo stesso tempo Influencer significa venire condannati all’oblio. Aggiungiamo l’appiattimento culturale, la polarizzazione delle posizioni che ha abolito la complessità e le sfumature del discorso, l’impoverimento del linguaggio e l’abolizione del contesto storico nel valutare i fenomeni, il conseguente aumento di suscettibilità ed autoreferenzialità da parte degli interlocutori, e si capiranno alla perfezione le difficoltà di chi ha sempre considerato l’attività del musicista come un qualcosa che trascende la normale dimensione lavorativa.

Se ci sarà mai un’inversione di tendenza, partirà da chi saprà recuperare esattamente questo aspetto, vivendo lo scrivere canzoni e il suonare dal vivo come attività che contribuiscono a definire il loro io, e che necessitano dunque di essere portate avanti, indipendentemente dall’esito.

 

I tipi di Gasterecords sono tra questi. L’etichetta bergamasca lavora da anni in un mercato minuscolo, che definire di nicchia sarebbe un eufemismo, ma la passione che ci mette nel promuovere i propri artisti risulta senza pari e farebbe comodo anche a chi appartiene alla dimensione mainstream.

Già, il mainstream. Dalle parti di Cologno al Serio vivono ancora come se la cosiddetta “musica Indie” fosse ancora ciò che era alle origini e che è rimasto fino a forse quindici anni fa: indipendente dalle logiche dell’industria discografica dei grandi. Ci piaccia o meno, si tratta di una visione anacronistica: gli obiettivi sono identici, che tu sia piccolo o grande, ciò che conta sono le views, i like, i follower, per cui anche quegli act che, per forza d’abitudine continuano a considerarsi “Indie”, alla fin fine si muovono secondo le logiche delle Major (e sognano tutti di andare a Sanremo, si potrebbe aggiungere).

Eppure, è proprio perché sono convinto che la situazione sia ormai questa, che adoro questa piccola resistenza sotterranea: sono persone che non hanno nessuna velleità di cambiamento ma che vanno avanti a fare musica perché la musica ha a che fare con la loro vita; per queste ragioni, come ho detto prima, il cambiamento arriverà da qui, se mai dovesse arrivare.

 

Ma parliamo di Jim Mannez. Andrea Manenti arriva all’esordio solista dopo l’avventura de La Madre degli Orfani, che è durata dodici anni e cinque dischi, e che ha contribuito a disegnare la mappa interessante dell’underground bergamasco. Avevamo avuto un piccolo assaggio del suo mettersi in proprio con la sua convincente interpretazione di “I Will Dare”, registrata per il tributo ai Replacements di cui abbiamo parlato qui qualche mese fa.

Si è circondato di due fidi collaboratori, suo fratello Gregorio (che ha lavorato tra gli altri con Coma_Cose e Dente) e Marco Parimbelli (Verbal, Open Orchestra) e ha messo insieme una dozzina di canzoni suonate con passione e interpretate con grinta e autenticità niente affatto scontate. La produzione di Gregorio Manenti, affiancato da un nome di talento ed esperienza come Frederick Paysden (che in alcuni brani interviene con mandolino e archetto) contribuisce a plasmare un suono grezzo ma allo stesso tempo cristallino, fatto soprattutto di chitarre acustiche (lo stesso Jim Mannez) e batteria (Alessandro Seminati), alle quali si aggiungono sporadici inserti di percussioni, tastiere ed effetti vari, oltre ovviamente alle chitarre elettriche, che intervengono in determinati momenti a sporcare dovutamente l’impronta dei brani.

Nel contesto solista, la scrittura di Andrea si stacca dalle suggestioni Alt Rock e pesca a piene mani dalla tradizione Rock e Folk: c’è ovviamente tanta America ma anche, insospettabile o forse no, un bel po’ di Italia; sia perché la scelta della lingua inevitabilmente crea quell’effetto lì, condizionando in una certa misura la percezione dei riferimenti, sia perché il cantautorato di casa nostra lo ha davvero masticato, per cui non è difficile riconoscere qua e là De Gregori ma anche uno come Giorgio Canali, al cui songbook strizzano l’occhio diverse melodie portanti di queste canzoni.

 

Canzoni che insieme compongono un ritratto appassionato dello stesso autore, un quadro che si fa ora autobiografia (come nella suggestiva evocazione della Bergamo della sua giovinezza di “Stazione-Città Alta andata-ritorno”, oppure in “Dodici anni o giù di lì”, che rievoca la parabola umana e artistica de Le Madri degli Orfani), ora confessione aperta (“A volte spero di non innamorarmi più”, ma soprattutto l’opener “Sincero”, nella quale emerge uno sguardo sulla realtà che ha insieme la semplicità del ragazzo e la consapevolezza dell’adulto).

Canzoni che, anche a livello musicale, spaziano con naturalezza tra diversi umori, dal Rock scanzonato a metà tra Elvis e Chuck Berry (“Il re”, “Ritratti #2”, entrambe impreziosite da splendidi inserti di sax), alle suggestioni sudamericane che evocano fuga e fame di spazi aperti (“Mexico”, sorta di racconto di viaggio in cui ritrovare se stessi e “Bacaro Tour”, divertissement in stile piratesco), fino a momenti in cui si vola alto, ballate profonde e a tratti sofisticate, dove l’umore si fa scuro e le certezze vengono meno, lasciando spazio alla dimensione più complessa e drammatica della vita (“Scegliere” e “Cielo nero”). E poi le due conclusive, “Volare o no?” e “Ricordi presenti”, aspirazione alla vita vera, la memoria come slancio sul presente, la lezione dei grandi cantautori in primo piano, benché riletta con personalità notevole, corredate da quelle che sono forse le migliori melodie vocali dell’intero disco.

Gran bel disco, e pazienza se raccoglierà poco. La resistenza, per quanto lenta e sotterranea (e senza nulla togliere al valore di certe proposte del mainstream, attenzione), oggi passa da qui.