Racconto denso, a volte ostico, complesso e stratificato del quale non sarà così facile, se non addirittura impossibile, dare un'idea della portata al lettore ignaro dei contenuti e della figura dell'autore, non proprio semplicissima anch'essa. Vediamo, da dove cominciare...
Alan Moore, per chi non lo sapesse, è considerato quasi all'unanimità come il maggior sceneggiatore (per qualità s'intende) di comics, tra le sue opere che hanno lasciato il segno sul media, dallo stesso Moore un po' disconosciuto per quel che riguarda la moderna produzione supereroica, ci sono Swamp Thing, Miracleman, Watchmen, V for Vendetta, From Hell, la linea ABC Comics, La lega degli straordinari gentlemen, Providence e diverse altre cose ancora, non tutte legate al mondo dei supereroi. In anni a noi più vicini lo scrittore di Northampton si è cimentato con ottimi risultati anche con la letteratura, scrivendo prima La voce del fuoco (1996) e poi questo Jerusalem la cui stesura si è sviluppata nell’arco di una decina d'anni di lavoro.
Proprio Northampton, la sua città di origine, è al centro degli scritti di Moore; già con La voce del fuoco lo scrittore inglese narrava episodi provenienti da diverse epoche che avevano il legame geografico di essere ambientate tutte a Northampton o nei territori che un giorno sarebbero divenuti Northampton, sperimentando già allora con il linguaggio e mettendo su pagina una conoscenza straripante della lingua e della cultura inglese probabilmente afferrabili solo leggendo il testo in lingua originale (plauso ai traduttori per il coraggio). Jerusalem è una diretta evoluzione di quel primo scritto, un'ode a Northampton, considerata per diversi motivi il cuore storico del Paese, e più precisamente un canto per Boroughs, il vecchio quartiere dove Alan Moore è nato e cresciuto, una zona popolare, povera, vecchio centro di una città che ormai non esiste più. A conferma di tutto ciò la dedica iniziale: Per la mia famiglia, per la gente di Boroughs e per Audrey Vernon, la migliore fisarmonicista che abbia calcato le nostre misere strade.
Le nostre misere strade. Ed è lì, tra quelle strade, così reali e così proiettate in un mondo immaginario e ultraterreno, che si svolgono le vicende narrate in Jerusalem, episodi che spaziano dallo storico al nostalgico, dal reale al surreale fino al totalmente fantastico senza soluzione di continuità alcuna, in un caleidoscopio di stili di scrittura e una pletora di vocaboli che possono tranquillamente far concorrenza ai migliori scritti degli autori oggi più blasonati e considerati da critica e lettori. L'opera è divisa in tre grossi "libri" (in Inghilterra è stata pubblicata in tre volumi separati, sicuramente più pratici): Boroughs, Mansoul e L'inchiesta dei Vernall, insieme a un Preludio e un Postludio. Lungo i capitoli, voluminosi e impegnativi, di queste tre sezioni del libro, si alternano stili di scrittura diversi, personaggi storici, inventati e mitologici, epoche e tematiche differenti, tutte tessere che andranno a comporre un amalgama d'insieme ricco e affascinante del quale l'ultimo capitolo è sia summa che sunto, una conclusione capace di commuovere (anche per aver portato a termine un compito tutt'altro che semplice) e appagare in egual misura.
Chi conosce l'autore è già al corrente dell'abilità sconfinata di Moore nel mettere le parole su carta, che siano queste in forma di sceneggiatura o in pura prosa per romanzi. In Jerusalem Moore gioca con la lingua (e per questo per chi ne è in grado il consiglio e di optare per la versione inglese) adottando i registri più disparati; sono presenti capitoli scritti in versi, altri come fossero una stesura teatrale, in uno l'autore si ispira allo stile di Joyce usato per il suo Finnegans wake scegliendo come protagonista del capitolo la vera figlia di James Joyce; su tutto aleggia l'ombra di William Blake, incontriamo tra le vie di Boroughs Charlie Chaplin, ubriaconi, Thomas Becket, puttane, Oliver Cromwell, fantasmi, Samuel Beckett, arcangeli (o Costruttori), John Clare e tutta la meravigliosa stirpe dei Vernall e dei loro parenti, destinati ad avere un ruolo, non sempre chiaro, nei piani delle forze che stanno al piano di sopra, letteralmente, in quella dimensione fantastica e fantasmatica che si può raggiungere dopo la morte e che prende il nome di Mansoul.
Il primo libro, Boroughs, è una vera e propria passeggiata tra le strade del vecchio quartiere e tra le epoche, dove è possibile incontrare vivi e morti, personaggi reali e di fantasia; ogni capitolo ha un punto di vista diverso in base al personaggio che ne è protagonista, cambia spesso il contesto della narrazione come la prosa adottata da Moore, ma quello che accomuna ogni passaggio è l'amore per un quartiere una volta colmo d'umanità e bellezza, nonostante la povertà e la violenza, e distrutto negli anni da un accumulo di politiche profittatrici e incuranti della storia e delle necessità di Boroughs e dei suoi abitanti. Già dal Preludio iniziamo a conoscere il quartiere e le sue vecchie strade, presenti in due cartine a inizio e a fondo del libro, sarà quasi impossibile dopo poche pagine non avere la tentazione di andare a sbirciare su Google Maps per vedere cosa è diventato Boroughs oggi (spoiler, è un postaccio). Subito Moore ci presenta due dei personaggi fondamentali di Jerusalem, i fratelli Micheal e Alma Warren, la stirpe dei Vernall, i Costruttori, il Terzo Borough e qualcosa chiamato in una lingua ignota il Porthimoth di Norhan e poi sprazzi di cultura alta e bassa, dalla storia inglese alla musica, dal cinema ai videogiochi fino ad arrivare ai vecchi mestieri senza limite alcuno, con una coerenza che solo chi ha un grado di cultura non comune può mettere in gioco. In fondo far convivere perfettamente nello stesso romanzo Oliver Cromwell, Lady Diana, le corone di Puck e il demone Asmodeo non è cosa da tutti.
Mansoul è la parte più fantastica del libro, ambientato in una dimensione atemporale, dove è più chiaro (ma non semplice) capire il concetto di eternalismo ciclico che Moore sostiene, e dove scorrazza una banda di adolescenti e bambini chiamata la banda dei morti morti che tra peripezie più o meno goliardiche ci accompagnerà tra le strutture e le leggi di questo strano mondo al quale tutti siamo destinati, destreggiandosi tra fantasmi di morti più o meno amichevoli, entità superiori, demoni, sogni degli umani vivi e anomalie con un loro preciso scopo. Mansoul è un libro bellissimo che potrebbe fare storia a sé pur essendo collegatissimo al tessuto di quella che rimane sempre una narrazione unica e compatta, mai slegata nonostante i mille cambi di prospettiva e forma. Con L'inchiesta dei Vernall si comincia ad andare verso il finale, a tirare qualche filo, nonostante questo Moore si concede digressioni interessanti come quella sulla breve storia del capitale, distruttore dell'economia del baratto, è questo anche il libro nel quale l'autore sperimenta maggiormente nella forma cambiando più volte registro in maniera evidente, forse proprio per questo risulta anche la sezione più "scorrevole" di Jerusalem e si prosegue fino ad arrivare allo splendido Postludio che chiude un libro immenso.
È raro leggere qualcosa che contenga una tale ricchezza nel lessico e nello stile, a prescindere dall'empatia che si può o meno provare per opere così corpose e comunque dai contenuti particolari, Jerusalem è un'opera che dovrebbe finire di diritto vicina a quelle che i lettori attenti tengono in grande considerazione, arrivato relativamente tardi alla forma romanzo, vedremo se Alan Moore (classe 1953) riuscirà a ritagliarsi negli anni quella considerazione che già ora meriterebbe.