Il ritorno discografico dei Jennifer Gentle è una di quelle notizie per cui vale davvero la pena di brindare. Negli anni comunque ci siamo abituati: progetti musicali che bene o male ruotano attorno ad uno o due membri, di volta in volta accantonati ma periodicamente riportati alla vita, forti di un consenso affezionato (il solito, proverbiale “zoccolo duro”) che in queste circostanze rappresenta il fattore principale di sopravvivenza.
Va da sé che i Jennifer Gentle sono sempre stati una realtà anomala: sin dal loro esordio del 2001, “I Am You Are”, sono stati molto più seguiti all'estero (mondo anglosassone in particolare) che dalle nostre parti, caso emblematico di proposta musicale seria, la cui autorevolezza viene più facilmente riconosciuta in paesi dove il mestiere di musicista è considerato un lavoro vero e proprio e non un semplice passatempo.
Non a caso il gruppo può vantare un’uscita per la Sub Pop (“Valende”, del 2005) ed un solido endorsement da parte di alcuni nomi rinomati della scena (Jarvis Cocker e Graham Coxon basterebbero da soli a chiuderla lì).
Recentemente c’è stata una pausa di dodici anni, un periodo durante il quale si possono potenzialmente far uscire anche cinque o sei dischi, un periodo che equivale ad un'era geologica, in un'epoca come la nostra, dove l'accelerazione sembra essere l’unica lente attraverso cui accostarsi al reale, e dove in tanti fanno uscire un brano nuovo ogni tot mesi per la paura di venire dimenticati.
Ma evidentemente Marco Fasolo se ne frega altamente. Qui da noi ha legato il suo nome più al ruolo di produttore che a quello di compositore, dando vita a lavori che piano piano hanno creato un suono, un marchio di fabbrica, facendolo divenire uno dei più richiesti nel suo ruolo.
Recentemente ha messo mano al progetto I Hate My Village, insieme ad Adriano Viterbini, Fabio Rondanini e Alberto Ferrari e i risultati si sono visti. Adesso, dopo due anni di gestazione, ha deciso di ritornare al suo antico amore e ci ha regalato un nuovo disco dei Jennifer Gentle.
Iniziamo col dire che ogni paragone con quanto fatto in passato risulta probabilmente superfluo. Dodici anni non sono pochi e spesso azzerare tutto e ripartire da capo può essere più funzionale rispetto al continuare a tutti i costi un discorso interrotto.
E così si va di reset totale, a partire dallo stesso titolo, che è semplicemente il nome della band. Jennifer Gentle si ripresenta quindi nuovamente al mondo, come se fosse la prima volta ma, e qui sta il bello, forte di una storia che, se anche non viene esplicitamente nominata, aleggia prepotentemente nelle nuove canzoni ed è responsabile dell'altissima qualità di ciò che ci troviamo davanti.
È rimasto il solo Marco Fasolo, nella formazione originale, ed è lui che ha fatto tutto, dalla scrittura alla produzione, al missaggio.
Ha suonato anche praticamente tutti gli strumenti, dalla chitarra, all'Hammond, alle percussioni ma questo disco è comunque frutto di un lavoro corale: accanto a lui ci sono infatti Diego Dal Bon (che si è occupato di batteria e percussioni ed ha collaborato assieme allo stesso Fasolo alla realizzazione dell'artwork) e Carlo Maria Toller (piano). C’è poi un piccolo ensemble di fiati e archi (Luca Moresco, Glauco Benedetti, Sergio Gonzo, Federico Zaltron, Pietro Bonato, Francesca Pretto, nonché la partecipazione, in un brano, del violoncello di Daniela Savoldi, già vista in azione, tra gli altri, con Le luci della centrale elettrica) che per chi scrive rappresenta la cosa più bella in assoluto di questo disco, gli dona un respiro orchestrale e arricchisce lo spettro sonoro di canzoni già perfettamente riuscite nella loro struttura portante.
Non è un lavoro facile: stiamo parlando di 17 canzoni per 60 minuti di durata, un tempo che, come sto scrivendo spesso, l'ascoltatore medio di oggi non è più in grado di sostenere.
Uno come Fasolo però di queste cose (giustamente) se ne frega, anche perché qui dentro ogni canzone, ogni nota è funzionale al progetto e di sicuro quello che non accade mai durante l'ora di ascolto è di annoiarsi: tantissima varietà stilistica e compositiva ma, allo stesso tempo, un'omogeneità di fondo che è stata peraltro esplicitata nel comunicato stampa dalla band stessa.
Dovendo declinarne maggiormente i contenuti, occorre dire che il punto di partenza da cui ci si muove, più che gli esordi sperimentali e psichedelici, stia nel progetto Universal Daughters, che rileggeva a modo suo e con l'aiuto di ospiti alcuni dei momenti significativi della tradizione americana.
Non è un disco sghembo, infatti, non ci sono atmosfere sinistre e sonorità barrettiane. A parte un paio di episodi (“Temptation”, “My Inner Self”), dove si respira un certo feeling oscuro e vagamente straniante, il resto della tracklist è una sorta di compendio della storia del rock, ipotetica guida turistica di una galassia ampiamente esplorata ma non sempre pienamente decifrata.
Ci sono così le strizzate d'occhio ai Beatles, sia a quelli più romantici e orchestrali (“Only in Heaven”, “More Than Ever”) che a quelli più acidi del periodo “Revolver” (“Beautiful Girl”); ci sono omaggi al Brian Wilson più corale (“Just Because”, “What in the World”), autentiche bordate Garage (la strepitosa “You Know Why”), momenti di irresistibile groove dal sapore Soul (il singolo “Guilty” o la strumentale “Love You Joe!”).
Il tutto, va da sé, con una produzione scintillante e maestosa, e con una prova esecutiva magistrale da parte di tutti i musicisti coinvolti.
Un disco che è un toccasana per le orecchie, che si muove tra il terreno rassicurante della tradizione e la spinta propulsiva di una ritrovata freschezza. Era veramente ora che Marco Fasolo ritornasse a comporre, ce ne siamo resi conto solo adesso, di quanto ci fosse mancato.
E sarà anche bellissimo vederli dal vivo, ora che hanno annunciato nuove date in giro per l’Italia...