Torna il Jazzmi, finalmente in un’edizione priva di restrizioni, distanziamenti e quant’altro. La popolare rassegna concertistica, una delle migliori del paese per varietà e qualità della proposta, prende le sue mosse dal teatro della Triennale ma si dipana lungo una serie di location differenti, da quelle storicamente legate alla musica Jazz come il Blue Note, ai più classici club come Alcatraz e Santeria.
La stessa cosa accade per l’offerta, che agli artisti più tipicamente nei canoni del genere affianca un’attenzione alla nuova scena, con artisti più sperimentali, che rileggono il Jazz alla luce della realtà contemporanea e alla contaminazione con diverse influenze.
Quello che segue è un breve resoconto delle cose che ho scelto di vedere, nella consapevolezza che, tra esibizioni in contemporanea e un programma spalmato su una decina di giorni, sono molte di più le cose andate perse. I concerti a cui sono riuscito ad assistere, comunque, confermano la validità di una kermesse che davvero non ha nulla da invidiare ai più importanti appuntamenti esteri. E poi c’è stata la grande occasione di vedere suonare artisti che dalle nostre parti non passano troppo spesso o che proprio non erano mai venuti. Non è poco, se consideriamo che spesso ci lamentiamo di essere un fanalino di coda, per quanto riguarda l’attività live.
Il concerto di Uri Caine e Theo Bleckmann apre il mio personale Jazzmi e non poteva esserci appuntamento più particolare. I due non hanno bisogno di presentazioni: pianista eccezionale il primo, con decine di dischi incisi, progetti di ogni tipo e collaborazioni con tantissimi nomi della scena (tra gli altri, Philly Joe Jones, Hank Mobley, Odean Pope), il secondo è tra i migliori cantanti al momento in circolazione, non solo nel mondo Jazz, anche se si è mosso principalmente da quelle parti (ha lavorato con Ambrose Akinmusire, Sheila Jordan, Kneebody e Ben Monder, giusto per dirne alcuni).
Insieme hanno già collaborato parecchio in precedenza e questa sera propongono quella che è una sorta di versione ridotta e condensata di quei loro progetti. Uri al pianoforte a coda (ma con qualche sporadica incursione al piano elettrico) Theo che oltre a cantare si diverte con una loop station, con la quale campiona respiri, vocalizzi, imitazioni di versi di animali, beat vocali e quant’altro. Il repertorio è quello della grande tradizione occidentale, si va dai lieder di Schumann e Wagner, ad una parte del ciclo “A Winter’s Journey” di Schubert, per poi approdare a George Gershwin e al Bertold Brecht dell’Opera da tre soldi.
Il piano di Caine funge da accompagnamento ma non disdegna qualche incursione più profonda nella melodia, mentre Bleckmann è al limite della perfezione con la sua voce da crooner, che presenta tutta una versatilità ed una gamma di espressioni, al di là del timbro magnifico che è senza dubbio la sua forza principale. I vari episodi sono riletti e spesso decostruiti, l’uso del vocoder e il cantante che si spinge spesso in territori di astrazione e puro espressionismo, fanno sì che la serata sia tutt’altro che una mera riproposizione di standard. A tratti toccante, a tratti anche molto ostico, specie quando i due spingono di più sull’aspetto concettuale delle riletture, si tratta comunque di un momento di confessione a cuore aperto da parte di due artisti che sul palco hanno offerto il loro cuore agli spettatori. C’è un unico bis, che va a pescare nel confortante repertorio di Frank Sinatra, con una notevole “I’ve Got a Crush On You” che riconcilia in parte con le difficoltà di ascolto sperimentate in precedenza. Bellezza assoluta, al di là di ogni confine e visione preconcetta.
Subito dopo è il turno di Joe Armon-Jones e anche qui è interessante notare come dal vivo questi artisti siano sempre in grado di offrire qualcosa di inatteso, di mutare la prospettiva e di offrirci un’altra immagine rispetto a quella che credevamo di conoscere.
Il pianista inglese possiede senza dubbio un background Jazz ma le ultime uscite discografiche, il secondo disco Turn To Clear View, del 2019, nonché l’EP A Way Back di quest’estate, si muovono in bilico tra Dub e Hip Hop, non disdegnando incursioni nel Funk e nell’elettronica; il tutto, ovviamente, senza rinunciare alle proprie origini, perché comunque permane sempre una certa componente virtuosistica (come del resto dice anche la presenza di un nome come Nubya Garcia, che lo ha anche accompagnato dal vivo nell’ultimo tour).
Sul palco le cose sono differenti. Si presentano in tre: basso e batteria, oltre ovviamente ad Armon-Jones che suona sia il piano che le tastiere. Cominciano con una lunghissima improvvisazione, dove il pianoforte tasta il terreno e trova via via nuovi itinerari da percorrere, con gli altri due strumenti che ascoltano e gli vanno dietro, arricchendo le tessiture ritmiche e armoniche con i loro contributi. È tutto rigorosamente analogico e, sebbene non manchino momenti di sperimentazione, quello che ascoltiamo è Jazz nella migliore accezione del termine. Nel prosieguo le cose si fanno più strutturate e compaiono alcuni brani riconoscibili (tra quelli annunciati esplicitamente ci sono “To Know Where You’re Coming From” e “Icy Roads (Stacked)”) più alcuni inediti, provati in questa sede proprio per testarne le potenzialità.
Il livello è sempre altissimo ed è una gioia per gli occhi e per le orecchie osservare tre musicisti perfettamente affiatati, cercarsi con lo sguardo e costruire le canzoni nota dopo nota, sempre con l’aria di divertirsi un mondo. È una vera e propria immersione “in the zone”, tanto che Joe stesso, simpatico e comunicativo per tutta la serata, esattamente come se ci avesse invitato a casa sua, dice che non sa bene da quando tempo stanno suonando, visto che quando sono sul palco perdono la cognizione del tempo.
Durerà in tutto un’ottantina di minuti, ma l’intensità e la bellezza sprigionate sono già di per sé sufficienti per mandarci a casa felici. Tutto splendido, dalla bravura dei tre musicisti alle visioni a cui hanno dato forma davanti a noi. Interessante anche perché ci ha mostrato un artista diverso da quello che abbiamo conosciuto nei suoi dischi. Proprio a questo servirebbero i concerti e direi che per gli artisti che si muovono in questo ambito il live è innanzitutto comunicazione di sé, prima ancora che esecuzione del proprio repertorio.
Il giorno successivo mi sposto al Santeria di viale Toscana, dove è di scena Alfa Mist. La cornice è radicalmente diversa: un piccolo club invece di un teatro, il pubblico è mediamente più giovane e l’atmosfera più calda, visto che si sta in piedi e, per forza di cose, c’è un grado di partecipazione e interazione maggiore.
Bring Backs, il quarto disco dell’artista di Newham, è uscito ormai da un anno e mezzo ma, complice la pandemia, le occasioni per portarlo in giro non sono state molte.
Questa sera sono in quattro: oltre ad Alfa, seduto al centro dello stage coi suoi pianoforti elettrici, ci sono il chitarrista Jamie Leeming (lui stesso con una carriera solista in corso, durante la serata è stato anche proposto un suo brano), la bassista Kaya Thomas-Dyke (ottima anche dietro al microfono, come dimostrerà a metà show), James Copus alla tromba e Nathan Singler alla batteria.
Il musicista britannico fa parte di quella scena contemporanea che ha saputo fondere magistralmente il Jazz con il Soul e l’Hip Hop, senza dimenticare una buona dose di contaminazione elettronica. Rispetto ad altri colleghi, però, la sua musica è maggiormente debitrice alle strutture tradizionali, spesso beat, voci e quant’altro fungono piuttosto da sovrastruttura, ed è per questo che il suo live è più aderente ad un normale concerto Jazz, più incentrato sul lavoro di improvvisazione dei singoli componenti della line up.
Non mancano le parti rappate, come ad esempio nell’ottima “Mind the Gap”, ma a parte queste eccezioni, l’ora e mezza abbondante a cui assistiamo contiene una buona dose di improvvisazione, nonostante vengano comunque proposti i vari episodi della sua discografia, con una buona aderenza alle versioni in studio, almeno per quanto riguarda i temi portanti.
La cosa che colpisce è che Alfa, per quanto suo sia il concerto e suo il repertorio, non è propriamente al centro dell’attenzione. Il suo piano è costantemente presente ma funziona più come motore immobile, come sottofondo costante che va a riempire gli spazi e a connotare i paesaggi. In questo lavora con una sezione ritmica pazzesca, perché Nathan Singler è bravissimo nel cambiare continuamente intenzione al pezzo, con un drumming basico ma anche molto raffinato, in coppia con una Thomas-Dyke davvero in stato di grazia.
Sono invece Leeming e Copus a ricoprire i ruoli solisti, la chitarra e la tromba che si prendono a turno i loro spazi e colorano via via i diversi episodi con i loro interventi. Alfa è sempre lì, discreto e quasi timido (anche in quelle poche occasioni in cui si rivolge al pubblico) ma ogni tanto esce fuori anche lui, il lavoro di tastiere a salire in cattedra e sono momenti in cui risulta più evidente che razza di musicista sia.
I brani di Brings Backs occupano la maggior parte della scaletta e vengono resi alla grande, soprattutto “Teki” e “Organic Rust”, che già in studio erano tra gli episodi migliori. Nel finale arrivano anche cose più datate come “Keep On” (boato del pubblico, non appena Alfa, dopo aver indugiato un po’ sui tasti, accenna il tema principale) e “Brian”, versione molto concisa, suonata come unico bis, a chiudere un concerto che credo già possa risultare tra le cose migliori di questa edizione.
La domenica si ritorna in Triennale, per il concerto attesissimo degli Ill Considered. Il trio londinese è in giro da poco tempo ma nei quattro anni della sua storia ha già pubblicato una mole immensa di lavori (tra Ep, dischi dal vivo ed album vero e proprio credo che siamo a quota quattordici o giù di lì). L’ultimo disco in studio, Liminal Space, è quello che li ha fatti svoltare, portandoli all’attenzione di un pubblico più vasto e facendoli calcare i palchi dei principali festival europei (a me sono stati segnalati da un amico che li aveva visti nella seconda settimana del Primavera Sound, in una serata curata, guarda caso, dal sassofonista Shabaka Hutchins).
Si sarebbe dovuto iniziare alle 19, orario stranissimo ma decisamente congeniale, soprattutto la domenica sera, ma arrivati sul posto scopriamo che lo sciopero dei voli di questi giorni ha fatto slittare tutto di un’ora. Ci è andata di lusso, direi, considerato che quest’estate diversi concerti sono stati annullati a causa di questi problemi logistici. Alle 20 in punto le luci si spengono e il gruppo fa il suo ingresso sul palco, probabilmente senza aver avuto modo di operare un sound check come si deve, cosa che non andrà però minimamente ad impattare sulla loro performance.
Rispetto alla mole di ospiti presente su Liminal Space sul palco gli Ill Considered ritornano al loro nucleo essenziale: Idris Rahman (sax), Liran Donin (basso) ed Emre Ramazanoglu (batteria). L’assetto è il medesimo dei Sons of Kemet, il nome che è stato più spesso tirato in ballo per descrivere il loro sound. La scena è la stessa (non a caso Theon Cross è uno degli ospiti del disco) ma la declinazione della proposta è decisamente diversa, come si avverte sin dalle prime note.
Più che ricercare ritmi ballabili contaminati dall’Afro Beat, gli Ill Considered si gettano a capofitto nell’improvvisazione, partendo da lunghe e dolenti note di sax, e ricercando lentamente la strada da percorrere, costruendo le melodie come a tentoni, senza nessuna fretta di crescere e di scalare troppo presto il climax emozionale.
Rahman detta la linea (per lui, oltre al sax, anche una piccola porzione al flauto), quasi mai con linee melodiche riconoscibili e reiterate, spesso con un lavoro costante di ricerca, cavando dallo strumento suoni arditi, spesso lancinanti, con Ramazanoglu che lo segue in un profluvio di tempi dispari. Ogni tanto accelerano, il basso di Donin che parte in cavalcata doppiato dalla batteria, il sax che incalza, in un crescendo di potenza che, nelle intenzioni, si avvicina pericolosamente al Metal. La cosa interessante è però che, almeno questa sera, non hanno lo scopo di utilizzare le progressioni e le accelerazioni per conquistarsi il pubblico: la loro musica è come un’onda che si forma, diventa sempre più grande ma inizia a calare appena prima di raggiungere il picco. Ci sono diversi momenti in cui sembra che stiano per esplodere ma poi rilasciano pian piano la tensione, diluiscono l’energia e ripartono da capo, trovando un altro nucleo melodico da sviluppare.
L’abbondanza di tempi irregolari e le evoluzioni spigolose del sax non permettono mai di lasciarsi andare al ritmo, si è costretti a seguirli in silenzio, concentrati per cogliere ogni sfumatura. Potrebbe essere un difetto e invece, personalmente, è quello che me li fa apprezzare di più, proprio perché sono imprevedibili e si ha l’impressione che ogni loro concerto sia un mondo totalmente a sé stante, anche rispetto ai normali standard del Jazz.
Il suono è secco, molto sporco, diverso da quello più orchestrale delle versioni in studio, dove ovviamente la presenza di musicisti ospiti arricchiva i vari episodi di molteplici sfumature. Un’ora e mezza di durata, una sola pausa nel mezzo per salutare e presentarsi, un piccolo bis finale. Questo concerto degli Ill Considered ce lo ricorderemo per parecchio tempo e non credo ci vorrà molto prima che si parli di loro come il nome più grande della scena Nu-Jazz, non solo londinese.
Mercoledì 5 ottobre è la volta della Cinematic Orchestra e per l’occasione ci si sposta all’Alcatraz, allestito con il palco principale ma con un’affluenza decisamente inferiore a quella che un act del genere avrebbe meritato. Avevo visto la band di Jason Swinscoe nell’ambito del TOdays Festival del 2019 e me lo ricordo ancora come uno dei live più intensi e sorprendenti degli ultimi anni; ragion per cui le mie aspettative erano altissime. Non ci sono nuovi dischi da promuovere, l’ultimo lavoro in studio è sempre To Believe, uscito nel 2019, che che contribuì non poco ad accrescere le quotazioni del collettivo, già salite alle stelle dopo la pubblicazione del singolo “To Build a Home” (2007), che aveva avuto una larga diffusione anche al di fuori dei circuiti specializzati.
Sono un gruppo di nicchia che ha abbracciato la dimensione mainstream, fanno una musica relativamente immediata e densa di suggestioni; lo si capisce anche osservando il pubblico, a colpo d’occhio più generalista e meno appassionato di quelli che frequentano gli appuntamenti della Triennale: durante il concerto ne faremo le spese, visto che il chiacchiericcio, le risate, le spedizioni al bar coi tizi che tornano carichi di birra per gli amici, saranno all’ordine del giorno.
La novità di questo tour è la presenza di Ben Olsen, una sorta di “quinto elemento” che dialogherà con le canzoni in maniera costante, tramite un monitor e una telecamera: visual di vario tipo, immagini analogiche e digitali, fogli battuti a macchina in tempo reale, filmati di varia provenienza, vanno ad arricchire la narrazione musicale con un effetto decisamente accattivante.
Lo show è bello, anche se inferiore a quello di tre anni fa, forse anche per l’assenza della sezione fiati. Le creazioni dei quattro musicisti sul palco (cinque durante i brani cantati) sono affascinanti ma piuttosto poveri di soluzioni, soprattutto per quanto riguarda la sezione ritmica. Ne risulta una certa staticità di fondo, che sebbene sia voluta e funzionale alla proposta (l’impronta da soundtrack è sempre stata un loro marchio di fabbrica, le interazioni tra elettronica e tastiera vanno molto in questa direzione), alla lunga rischia di stancare. Molto meglio quando seguono la forma canzone (da questo punto di vista la prova vocale di Heidi Vogel è come sempre maiuscola, probabilmente la cosa migliore del live) o quando si muovono in territori più tipicamente Jazz, con la tastiera del bravissimo Dominic Marshall nel ruolo di strumento solista e con la batteria della colonna portante Luke Flowers che cresce nel ritmo e nella dinamica (un po’ sacrificato invece il basso di Sam Vicary, piuttosto povero di soluzioni).
Per il resto, è evidente che puntino di più sulle atmosfere e sulle soluzioni di facile presa, vanno sul sicuro e si capisce che il pubblico di questa sera non vuole essere stupito quanto essere confermato in un giudizio.
Niente di male, intendiamoci: stiamo parlando di un progetto che ha indubbie radici Jazz ma si è da subito contaminato con altri generi e che non ha mai preteso di parlare una lingua per iniziati.
Non sarà il concerto migliore di questa edizione ma stiamo pur sempre parlando di una bellissima prova. Adesso non resta che aspettare il nuovo disco, visto che qualcosina in anteprima questa sera l’abbiamo ascoltata.
Il concerto in seconda serata di Emma-Jean Thackray chiude il mio personale Jazzmi. Il suo Yellow, uscito l’estate scorsa, è stato senza dubbio uno dei lavori più interessanti in ambito Nu-Jazz, confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, lo stato di forma e l’importanza di quella che ormai viene da più parti definita la “scuola di Londra” e che anche qui a Milano, tra Joe Armon-Jones, Alfa Mist e Ill Considered, abbiamo avuto modo di testare.
L’artista dello Yorkshire, che ha la tromba come primo strumento ma che si muove con disinvoltura anche nell’ambito della musica elettronica, guida un trio di musicisti composto da Lyle Barton (tastiere), Dougal Taylor (batteria) e Matt Gedrych (basso). Lo sfondo è indubbiamente Jazz, basti da sola la lunga parte strumentale che apre “Mercury”, dove la tromba è la gran protagonista. In seguito però, nella riproduzione più o meno integrale dei brani del disco, la forma canzone diviene protagonista, con la voce della Thackray a svettare piena ed espressiva, la band a supportarla creando a più riprese un efficace wall of sound.
C’è anche una certa dose di elettronica, specie nelle parti di batteria e in alcuni tessuti ritmici, mentre la scelta di utilizzare i cori preregistrati, di cui possiamo senz’altro intuire la necessità, ha, almeno per quanto mi riguarda, inficiato in parte la spontaneità dello show.
Tra i brani proposti, hanno colpito “Green Funk” e “Venus”, dilatate da affascinanti parti strumentali in cui oltre alla tromba, si è reso protagonista anche Lyle Barton con le sue tastiere. È comunque uno spettacolo molto fisico, dove la componente spirituale e l’amore per la natura hanno un peso non indifferente (Emma-Jean ha più volte ricordato questo aspetto, tra un brano e l’altro, sottolineando per esempio come si sia goduta il sole in quella giornata, in contrasto col clima freddo della sua Inghilterra) e dove il groove si erge spesso a protagonista, specialmente nel finale, con l’arrivo di brani particolarmente energici come “Sun”, “Yellow” e “Our People”. Il pubblico, da parte sua, risponde bene ma a parte qualche battimano a scandire il tempo, si avverte poca partecipazione (senza dubbio l’essere in un teatro seduti ha fatto la sua parte, probabilmente sarebbe stato un concerto più adatto ad un piccolo club) e questo a mio parere ha un po’ smorzato l’effetto di un set che, molto di più degli altri di questa edizione, ha avuto la sua forza nella grande immediatezza della proposta.
Emma-Jean Thackray si conferma comunque anche dal vivo un’artista interessantissima e siamo davvero curiosi di vedere che cosa succederà nel suo percorso, dato che siamo solo agli inizi.
The Cinematic Orchestra. Photo courtesy: Lino Brunetti