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REVIEWSLE RECENSIONI
22/12/2023
Sufjan Stevens
Javelin
"Javelin" è un disco profondo e riuscito, dai suoni importanti e con alcuni brani di altissimo livello. Un album che segue le ormai continue, altalenanti e abituali ricerche di Sufjan Stevens verso se stesso e le proprie sfumature, intimo ed elaborato, insicuro e saldo come solo lo Stevens che amiamo sa essere.

Sufjan Stevens ci ha abituati ai movimenti della sua altalena emotiva: da un lato l’intimità in cui si ha quasi il timore di essere sentiti nell’atto di addentrarvisi, dall’altro elementi più elaborati e sintetici, plastici. Punte altissime da una parte o dall’altra, basti pensare a The Age of Adz (2010) o The Ascension (2020), eppure ho sempre percepito nella limpidezza dei messaggi una certa dose di insicurezza, quasi come se il cambio di prospettive fosse dovuto ad una continua ricerca di se stesso. Un’insicurezza che però non riesco a vedere come soltanto negativa, quanto piuttosto come una garanzia di purezza, di matrice sana, quindi che ci sia un’idea di se stessi più o meno estesa o intima, con un conseguente adeguamento della produzione, mi sento sicuro che ne varrà la pena.

The Ascension ad esempio, pregno di elettronica, mi aveva conquistato con qualche elemento davvero di altissimo livello, come la stupenda “Video Game”. Javelin invece, annunciato come un ritorno al passato, a quel Sufjan Stevens intimo che tanto ha contribuito a creare l’immagine più solida dell’artista a cui potersi affezionare, penso quindi già che mi porterà vicino alla vetta opposta di quell’altalena sonora.

 

Una voce trattata senza invadere, un dosaggio magistrale di autotune, unita ad un’atmosfera scarna. Questo è ciò che ci accoglie quando premiamo play e parte “Goodbye Evergreen”. Un piano elettrico smussato dei suoi spigoli più taglienti e reso inoffensivo, quasi a voler lasciare emergere qualcos’altro; voce che sembra piatta ma in realtà è solamente velata e, appunto, trattata. Non nascondiamoci quindi di fronte alle apparenze: sarà anche un disco fatto in casa, come Stevens ci tiene a ribadire, ma la produzione c’è ed è a maggior ragione accurata essendo opera dello stesso Stevens, senza dipendere dai tempi di un ambiente di studio.
Il colore bianco tendente al grigio ci abbraccia nell’estendersi di quest’introduzione, di pari passo al lento emergere dei cori ben annegati nel reverbero; il basso appena più deciso fino a quell’improvviso fade in, una salita di volume rapida che sposta dentro al centro del pezzo, il ritornello e la prima vera esplosione. C’è un gran bel caos che d’istinto spiazza e si fatica a ritrovare le redini. Una qualche distorsione riporta a galla tutti gli equilibri che nuotavano tra i due mondi separati: l’acustico e il sintetico, l’asciutto e il carico, lasciando comunque ancora nell’incertezza di non aver trovato il bandolo della matassa, come se mancasse un pezzo di canzone. Le voci e i loro delay a questo punto si intrecciano in un fraseggio di echi che pare portare verso la fine; si prendono il loro tempo, salvo risalire per un’altra esplosione, forse un po' immotivata ma sicuramente più fiabesca grazie a dei flauti. Una scelta che nel corso degli ascolti troverà un suo perché ma resterà il punto meno convincente del disco.

 

“A Running Start” continua il discorso e lo fa benissimo: un chitarrino asciutto e appena ferroso fa da sfondo alla solita voce delicata, un contrappunto di corde appena più morbide gioca ad arrangiare il momento ancora in chiave fiabesca, continuando il discorso intrapreso nella precedente coda. Le voci seguono e l’esplosione ritmica stavolta si fa trovare nel posto giusto. Se prima a governare era il bianco, ora appare all’orizzonte un colore naturalistico filtrato da un accurato utilizzo dell’elettronica e del computer.

Arriva “Will Anybody Ever Love Me?” con la sua chitarra piccola e stridente, che pare quasi un innocuo e rispettoso omaggio al Damon Albarn solista. Per il resto, è il solito mondo sospirato che abbiamo imparato ad amare, conoscere e forse un po’ anche a prevedere; pochi elementi entrano gradualmente, mostrando la sapienza degli arrangiamenti, una cassa che gioca soltanto a sembrare un colpo senza però infastidire. Cambia la sezione, si aprono i cori ed ecco: finalmente spicca il volo insieme al disco e alla realizzazione delle (almeno mie) aspettative. Canzone meravigliosa, primo punto altissimo degnamente chiuso da un “orchestrale” di cui si intuisce la grandezza, come accostarsi sulla soglia di una finestra e intravedere in lontananza un cielo dal colore sbiadito, un panorama pronto a fondersi con un tramonto che ha tutte le carte per preannunciarsi bellissimo.

 

“Everything That Rises” è un’altra freccia meravigliosamente scagliata sui sensi di chi ascolta. Ormai si è quasi schiavi di un mood comunicativo in cui ci si sente totalmente immersi; un merito che, oltre alla scrittura e agli arrangiamenti, va al suono, tassello imprescindibile per l’immaginazione durante l’ascolto. È un po’ come se la canzone fosse racchiusa in un piccolo nocciolo interno e fortificato, un po’ come essere in The Truman Show, convinti che il cielo in fondo al nostro sguardo sia effettivamente un cielo, poi però arriva quel suono di sax o quel synth improvviso che deborda da questo margine di sicurezza e squarcia la tela del nostro sfondo azzurro, con il vantaggio che ciò che scopriamo ci porta ad un punto emozionale ulteriore, degno successore di ciò in cui abbiamo ondeggiato fino a questo momento. Ritmi e suoni portano senza che ce ne si renda conto alla fine di un altro grande pezzo.

“Genuflecting Ghost” prende le sembianze di una preghiera, un omaggio stretto nel laicismo di un linguaggio profondo e per tutti. Voce in primo piano che appare velata ma che se ascoltata da vicino mostra le sue cicatrici, grazie al trattamento effettistico sapiente citato all’inizio e che continua per tutto il disco. Curioso che i cori intorno a quella stessa voce la ammorbidiscano ancora di più e giochino ad essere le uniche rappresentanti, pur marginali, di quella maniera limpida in cui vuole apparire. La canzone di conseguenza prende le forme di una specie di “I Can’t Help (Falling in Love)” in cui lentamente le esplosioni ritmiche e di arrangiamenti riprendono il gioco di un paio di canzoni prima, sempre grazie a quegli stessi già citati flauti. Arriva a salvare da questo sentore di sconforto quel frammento sonoro di mellotron, pad o chissà che altro che apre la porta al futuro, allo spazio, ed è come se Sufjan avesse spalancato la mente per un istante ad un’ispirazione direttamente presa dal suo The Ascension.

 

“My Red Little Fox” mette in chiaro che in questo disco il linguaggio orchestrale è filtrato comunque da una dimensione sonora più inscatolata, non un’orchestra vera, ma dei synth che giocano a richiamarla. Magari un flauto vero, voci vere, reverberi che viaggiano. Le percussioni hanno un sapore africano, le frequenze basse, percussive, o del synth bass sono talmente ben dosate da lasciare intatto lo spazio circostante.

“So You Are Tired” è una dolce ballata tenuta in piedi da un piano e una chitarra che si intrecciano fino all’entrata dei cori che aiutano il ritornello ad aprirsi. Ancora bella la gestione sonora nelle frequenze basse e di conseguenza i relativi interventi ritmici sulle alte, che risultano lodevoli ed apprezzabili in tutta la loro freschezza. Il pezzo apre e chiude prendendosi lo scettro di terzo posto nella classifica delle canzoni imperdibili di quest’album, e più si avvia verso il finale di questa maestosa coda, più che penso che sia davvero un grande pezzo.

“Javelin (To Have And To Hold)” rappresenta una variante rispetto alla forma portata avanti in tutto il resto del disco. Un piccolo ed unico contatto di dolcezza vera, orchestrale, che tocca e lascia detto quanto doveva. “It’s a terrible thought to have and hold”. La seconda strofa è musicalmente un punto egregio di arrangiamento e tensione emotiva. Un minuto e cinquantadue.

 

Essere immersi in “Shit Talk” permette di sentirsi dentro ad uno svolgimento ma sicuri di essere ancora nel vivo dell’azione. Gli elementi in gioco sono i medesimi: introduzione arpeggiata, voce soffusa e bucata, interventi ritmici magistrali che strizzano l’occhio alla tipica maestosità del linguaggio orchestrale, mischiandosi senza esagerare con l’efficacia delle percussioni trascinanti di una colonna sonora viva e pompante. Sarebbe bastato poco per virare il suono in qualcosa di più facile e universalmente vincente, salvo il potersi ritrovare nel mezzo di una scelta sonora pacchiana e di disequilibrio nel rispetto del resto dell’album. “No, I don’t wanna fight at all”. La chiusura sonora di “Shit Talk” merita tutte le nostre attenzioni: un’orchestrazione cinematografica, un accavallamento di sensazioni, sonore e visive, che sembrano fare da perfetta cesura, da vera chiusura del disco. Sono quasi tre minuti di coda da godersi e risentire ancora, un punto incredibile di questo album.

Spetta a “There’s a World”, cover di Neil Young dal capolavoro Harvest, chiudere il cerchio. Ed è proprio bello e naturale, dopo quaranta minuti di ascolto e comprensione sonora, di visione di un mondo, trovarsi immersi in un brano ben noto, spogliato delle caratteristiche per cui è conosciuto e vestito invece di questi colori ormai testati e certi di funzionare, quasi a voler dire che quella canzone è sempre stata dietro l’angolo, pronta ad intervenire. O forse no, non c’è proprio niente da dire di musicale, serve solo a sottolineare l’importanza dei legami nel tempo tra cose sconosciute tra di loro, in rapporti che sembrano univoci ma che possono semplicemente stringersi, grazie ad uno sforzo del nuovo, che prende il vecchio e gli dona un po’ della sua linfa, portandolo a spasso nel suo mondo.

 

Javelin è un disco molto profondo e riuscito, preso per mano da un suono importante dal primo all’ultimo momento, con tre o quattro picchi di livello altissimo. È un piacere il fatto che segua il movimento ormai abituale e altalenante di Sufjan Stevens nella continua ricerca di se stesso, giocando apparentemente a fare il possibile per nascondersi, salvo scoprire che ci stia solo chiedendo di ascoltarlo meglio, di entrarci, ed allora ogni volta si mostrerà sempre diverso nel farsi ritrovare, magari giusto un poco cambiato.