L’ultima volta che James Blake ha suonato a Milano era il 2011 e non so se i Magazzini Generali fossero pieni, perché non c’ero. Negli anni ha senza dubbio aumentato il proprio pubblico ma rimane il fatto che qui da noi sia un artista ancora parecchio sottostimato. Se consideriamo che l’ultima volta che lo abbiamo visto in un concerto tutto suo, al di fuori del programma di un festival o di un’apertura a qualche altro artista, è stato una vita fa, il mancato sold out del Fabrique per quella che è la prima data in assoluto del nuovo tour, è un dato che di certo non conforta.
È strano, perché l’artista londinese ha una proposta perfetta per catturare un pubblico mainstream, non vorrei che la spiegazione vada cercata come al solito nella pigrizia e nella scarsa preparazione dei nostri connazionali in fatto di musica.
Esaurito o meno, il Fabrique si mostra comunque bello pieno quando Actress, un nome fortemente voluto da Blake, inizia il suo dj set, ricercato e molto orientato sull’Ambient, decisamente poco ballabile. Ha piovuto fortissimo fino a pochi minuti prima, c’è ancora gente intrappolata nel traffico e un post su Instagram del protagonista della serata è arrivato appositamente a rassicurare tutti, con la raccomandazione di guidare con prudenza e di stare tranquilli, che fino alle 21.30 non sarebbe salito sul palco.
L’attesa è grande. Non solo perché James Blake non lo si vedeva dai tempi di Assume Form (nel 2019 fu tra i protagonisti del Club To Club di Torino) ma sopratutto perché il tour parte ufficialmente stasera: non ci sono video, setlist, recensioni e quant’altro a fungere da spoiler e rovinare la sorpresa. In questi tempi di iper connessione ed eterna simultaneità non è poco.
Playing Robots Into Heaven rappresenta un altro ottimo motivo per essere qui: la nuova fatica del musicista britannico ha giocato la carta di un parziale “ritorno alle origini”, andando a recuperare quel lato da Producer da lui esplorato nei primissimi EP, scelta che è riuscita a rinverdire e a rendere maggiormente dinamica una ricetta che sul precedente Friends That Break Your Heart sembrava essersi un po’ ripiegata su se stessa.
Ne è uscito un buon disco, a tratti eccellente: Assume Form e The Colour in Anything rimangono termini di paragone inarrivabili, certo, ma è anche vero che il buon James è già arrivato in quella fase di carriera in cui non è necessariamente richiesto di produrre capolavori; rimanere in forma e continuare a scrivere belle canzoni appare un obiettivo finché mai desiderabile.
Si parte con “Asking to Break” e “I Want You to Know”, primi atti di una scaletta fortemente incentrata sull’ultimo disco. Assieme a Blake ci sono i soliti Rob McAndrews (Synth, chitarra, elettronica) e Ben Assiter (batteria), fedeli compagni di viaggio da tredici anni, “la mia prima band”, come li ha definiti durante il concerto, fondamentale sostegno (sempre nelle sue parole) nell’esecuzione di partiture complesse come quelle di stasera.
La componente elettronica dei nuovi brani, il loro frequente distaccarsi dalla forma canzone per andare a scorrazzare in territori Dubstep ed Ambient House, influisce in maniera radicale sull’economia del concerto: il cantautore che emoziona con le sue sofferenti ballate Electro Soul questa sera è meno presente. Per carità, episodi come “Limit to your Love”, “Life Round Here” o “Love Me in Whatever Way” ci sono ancora e provocano sempre più di un brivido lungo la schiena, così come le nuove “Loading” e “If You Can Hear Me”, quest’ultima suonata all’interno di una sezione finale pazzesca di solo piano dove è comparsa anche una sublime “Godspeed”, personale rilettura di un brano di Frank Ocean.
È il James Blake che il pubblico conosce meglio, quello che ha raccolto di più a livello commerciale, e l’impressione è che se avesse suonato per due ore questo tipo di brani, nessuno si sarebbe lamentato.
Questo tour però ha un’altra impostazione, più coerente con la natura del nuovo disco, e se c’è quindi spazio per commuoversi, ce n’è molto di più per ballare e divertirsi.
La speciale alchimia tra i musicisti viene fuori soprattutto in questo frangente, nelle lunghe versioni di “Big Hammer”, “Fall Back”, “CMYK”, nelle rivisitazioni vincenti di vecchi brani come “Can’t Believe the Way We Flow” e “Retrograde”, oppure in un episodio “ibrido” come “Hummingbird”, dalla colonna sonora dell’ultimo Spider-Man. E poi i bis, con una lunghissima “Modern Soul”, dove i suoni si fanno complessi e stratificati, in una versione altamente evocativa è lontanissima dall’originale, che mostra in pieno tutto il potenziale del trio.
Concerto bellissimo, testimonianza indelebile di un artista che se pure non è più al top su disco, dal vivo dimostra di avere ancora una marcia in più e di andare incontro ad un miglioramento costante. Da rivedere il prima possibile.