Se il seducente Goodnight Rhonda Lee del 2017 è stato per Nicole Atkins una sorta di ritorno alla vita (non solo artistica), dopo un lungo e difficile periodo di dipendenze, questo nuovo Italian Ice aggiunge un ulteriore e fondamentale tassello alla crescita di una delle songwriter tra le più interessanti dell’ultimo decennio.
Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, in Alabama, uno dei luoghi della memoria e patrimonio storico del rock statunitense, Italian Ice ha visto la Atkins fare le cose in grande, contornandosi di un nutrito gruppo di musicisti fuoriclasse (il tastierista Spooner Oldham e dal bassista David Hood, militanti nella Muscle Shoals Rhythm Section, il chitarrista Binky Griptite dei Dap-Kings, Jim Sclavunos e Dave Sherman dei Bad Seeds di Nick Cave e il batterista dei Midlake, McKenzie Smith) e di qualche ospite di lusso (Seth Avett degli Avett Brothers, Erin Rae e John Paul White), che hanno contribuito a definire ulteriormente uno stile già ben marcato nel capitolo precedente.
Sono undici le canzoni in scaletta, con cui la Atkins intesse, con eleganza e rigoglio di arrangiamenti, un coloratissimo melange di pop, soul, blues, funky e psichedelia: i piedi ben piantati nel presente, ma lo sguardo rivolto agli amati anni ’60 (che già erano la cifra stilistica che informava Goodnight Rhonda Lee) e in parte agli anni ’70. Modernità e vintage, dunque, per un disco che possiede un’ottima resa soprattutto se ascoltato in cuffia, in modo da cogliere sfumature, intuizioni e suoni che, arricchiscono un già di per sè intrigante paesaggio melodico.
Apre Am Gold, numero da vera fuoriclasse: un sognante drive di pianoforte (che evoca The Great Gig In The Sky dei Pink Floyd) conduce a un irresistibile groove funky soul che prende letteralmente il volo sulle ali della potente voce della Atkins e su quei coretti che fanno da giocoso contrappunto. Splendido incipit per un disco che prosegue giocando con la psichedelia nella trasognata Captain e nella baldanzosa Mind Eraser, che invita alla spensieratezza con il pop in chiave FM di Forever, che spinge sul dancefloor con la disco funk di Domino e che replica sornione un modulo r’n’b che sembra rubato a Mama Told Me Not To Come di Randy Newman (Never Going Home Again).
E poi, ci sono gli anni ’60, habitat naturale per la Atkins: l’intrigante melodia di St. Dymphna (il santo patrono delle sofferenze da afflizioni nervose e mentali), la languida svenevolezza di Far From Home, l’appassionata cover di Road To Nowhere, brano datato 1966 e preso dal repertorio di Carole King, e la breve ma splendida These Old Roses, con cui Nicole rende omaggio nuovamente a Roy Orbison, nume tutelare che aveva già ispirato alcuni dei momenti migliori di Rhonda Lee.
Di quel disco, Italian Ice è quasi una sorta di secondo capitolo, poiché attinge alle stesse influenze, allargandone però i confini. E’ egualmente potente, eppure meglio organizzato, meglio suonato e, in qualche modo più calibrato e consapevole. Cosa manchi a questa ragazza per diventare una stella di prima grandezza, non è dato sapere. La strada è comunque intrapresa e se, come ritengo, questa nuova fatica comparirà molto in alto nelle classifiche di fine anno, per la Atkins sarà forse il momento del definitivo grande salto. Non certo qualitativo (quello è già in atto), ma mediatico e commerciale.